Salvataggio Mps, il conto per lo Stato aumenta ancora
Sembra ieri, eppure sono già passati quattro mesi. Fu il primo atto del governo Gentiloni, mancavano poche ore a Natale e sembrava non ci fosse tempo da perdere. E invece la pratica Mps è sempre lì, inevasa, in un rimpallo continuo fra Siena, Roma, Francoforte e Bruxelles. L’ultima novità è che il salvataggio pubblico del Monte più antico del mondo si è complicato una volta di più, con il rischio che l’onere per lo Stato salga ancora rispetto ai 6,6 miliardi ipotizzati finora.
Che sta accadendo? Sono due i problemi emersi. Nei giorni scorsi la Bce ha recapitato a Siena gli esiti dell’ultima ispezione, conclusa lo scorso febbraio e che riguardava la classificazione dei crediti, i livelli di copertura e la valutazione delle garanzie dei crediti deteriorati. La banca, anche in virtù degli scambi di vedute con il team di ispettori europei, aveva già modificato metodologie e parametri utilizzati per il calcolo nel bilancio 2016. Ma l’esito dell’ispezione ha comunque fatto emergere perdite superiori a quelle calcolate fino a ora e che pesano nel computo dell’intervento statale.
Il secondo problema irrisolto riguarda la cessione delle sofferenze. La Bce ha infatti richiesto che il valore venga fissato nel piano sulla base di offerte puntali di soggetti terzi. I prezzi di mercato sono però ancora estremamente bassi. La maxi operazione lanciata da Unicredit ha avuto un prezzo medio di poco superiore al 17 per cento del nominale. Sulla base dei valori delle sofferenze scritte nei bilanci di Montepaschi – sono attorno al 30 per cento – venderle anche solo al 20 per cento comporterebbe un’ulteriore perdita fino a circa 4,5 miliardi, con il quasi azzeramento del patrimonio netto che al 31 dicembre scorso era di 5,4 miliardi.
La ricapitalizzazione necessaria – calcolata dalla Bce in 8,8 miliardi, di cui 6,6 di intervento pubblico e 2,2 di obbligazioni subordinate di investitori istituzionali convertite in azioni – sarebbe sufficiente per riportare il Cet1 (il principale indicatore di solidità patrimoniale) oltre il limite regolamentare, ma non abbastanza per centrare i target Srep imposti dalla Banca centrale europea. Di qui l’aumento dell’onere per il Tesoro, che però sarebbe ancora oggetto di negoziato con la vigilanza unica e la direzione concorrenza della Commissione europea. Tra le ipotesi avanzate da parte italiana c’è anche quella – in caso di valutazioni eccessivamente basse – di non vendere tutte le sofferenze (sono circa 30 miliardi lordi) così da non registrare perdite tali da abbattere il capitale. Ma questa soluzione, secondo quanto ricostruito, non sarebbe gradita a Francoforte.
Sin da Natale obiettivo delle parti è di chiudere l’intesa entro giugno. A Siena sono ancora ottimisti, ma il lungo stallo, se è vero che non avrebbe avuto effetti gravi sulla fedeltà dei correntisti, sta iniziando a creare delle difficoltà operative.
Sullo sfondo di questa delicatissima trattativa c’è poi il malumore diffuso di alcuni ambienti continentali e in particolare tedeschi sulla «eccessiva disponibilità» – così la definiscono fra Cancelleria e Bundesbank – mostrata dall’Europa nei confronti delle ragioni italiane per evitare le conseguenze del cosiddetto bail in (salvataggio interno) e forti perdite ad azionisti ed obbligazionisti.
Ciò vale sia rispetto alla vicenda Mps che delle due banche venete, anche in questo caso lontano dall’essere risolta. Se è vero che l’Italia non si è mossa quando le regole permettevano lauti aiuti statali alle banche – e molti ne fecero uso – oggi il quadro normativo è radicalmente mutato e i tedeschi si sono adeguati. Basti dire che la famigerata Hsh di Amburgo – in passato presa dalle autorità italiane come esempio di doppiopesismo teutonico perché beneficiaria di un aiuto pubblico autorizzato anni prima – ha rischiato di fallire e ora è in vendita. A privati.
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