Le scuole italiane e il tabù della bocciatura
«Se tutti gli studenti avessero i voti che meritano non verrebbe promosso più del 20 per cento». Spetta a un professore di un istituto tecnico commerciale pugliese il merito di aver ancora una volta portato alla ribalta nel modo più clamoroso, con queste parole (Corriere, 23 aprile), la grande menzogna su cui si regge da anni il sistema dell’istruzione italiano: le promozioni d’ufficio. Proprio perché il suddetto professore non stava al gioco, e viceversa dava ai suoi studenti i voti che meritavano, il dirigente della scuola dove insegnava lo ha sospeso a suo tempo dal servizio: sanzione disciplinare che adesso, dopo ben cinque anni, il giudice del lavoro di Lecce ha però annullato dandogli ragione. Le cose in effetti stanno così: nelle scuole italiane la bocciatura è di fatto bandita, così come è bandito ogni autentico criterio di selezione e quindi di reale accertamento del merito. Gli abbandoni scolastici beninteso ci sono (ad esempio negli istituti tecnico-professionali), ma hanno una spiegazione di altro genere, perlopiù legata alla condizione socio- culturale dell’ambiente familiare. Di fatto, dunque, chi nel nostro Paese inizia il corso di studi è pressoché matematicamente sicuro di arrivare al traguardo. E infatti gli esami di diploma finale fanno regolarmente segnare percentuali di promossi che da anni sfiorano il cento per cento (in che senso possa essere considerato tecnicamente un «esame» una prova che dà abitualmente risultati simili resta per me un mistero).
Quale affidamento possano dare in Italia i voti di diploma si capisce, del resto, considerando che nel 2016, per esempio, gli alunni promossi alla licenza in Puglia e Campania con il massimo dei voti sono stati più numerosi di quelli promossi con la stessa votazione in Lombardia, Piemonte, Veneto, Toscana ed Emilia messi insieme. In Italia, insomma, al momento degli scrutini, in una grande quantità di casi, probabilmente la maggioranza, non si valuta l’effettivo grado di apprendimento degli alunni. Si dà un voto che si può ben dire un voto politico. E si promuove.
Le cause sono molte. Di gran lunga la principale è l’ideologia fondata sulla categoria di «inclusione» che da decenni domina la nostra istituzione scolastica. Cioè l’idea che compito della scuola, anche dopo il percorso dell’obbligo, non sia quello di impartire conoscenze e accertare il grado del loro effettivo apprendimento, bensì soprattutto quello di «non lasciare nessuno indietro». Che detto in parole povere significa appunto procedere alla fine a una promozione generalizzata e indiscriminata. Da decenni, poi, è venuta crescendo nella scuola una tendenza che chiamerei all’«universalismo» (che è l’altra faccia della cosiddetta «autonomia»), in base alla quale la scuola stessa è stata sollecitata a proiettarsi all’esterno o comunque fuori dall’ambito suo proprio, verso una miriade di attività, di iniziative, di interessi — connotati di una valenza che in vario modo finisce per essere sempre quella del «politicamente edificante» — della quale quella che va sotto il nome di «scuola-lavoro» è senz’altro la più significativa. E che inevitabilmente finiscono per condizionare il giudizio anche sul profitto vero e proprio dell’alunno.
Agli occhi delle superiori autorità, del Ministero come del dirigente scolastico regionale, il «successo» di un istituto scolastico — che poi vuol dire la quantità di risorse di cui per i più vari canali esso riuscirà a disporre, nonché la possibilità di carriera del suo dirigente e la stessa possibilità dell’istituto stesso di non essere accorpato ad un altro a causa di un’eventuale perdita di iscrizioni, cioè di «popolarità» — dipende dall’adeguamento ai due orientamenti ideologici di fondo detti sopra. I quali hanno alla fine un riscontro ineludibile in un dato preciso: nel numero dei promossi. Inutile dire quanto apprezzato dalle famiglie, il cui giudizio influisce non poco per stabilire il «gradimento ambientale» dell’istituto in questione: fattore — inutile dire anche questo — sempre assai apprezzato dalle superiori autorità.
Nella scuola italiana, dunque, la promozione del maggior numero possibile di alunni ha finito per avere un valore assolutamente strategico. Essa è un vero pilastro dell’edificio scolastico. Ma come arrivarci in concreto? Non è difficile. Nel nostro sistema scolastico infatti — in base a una disposizione che risale, credo, al lontanissimo 1925 — ma che la voga democraticistica postsessantottesca e le conseguenti disposizioni ministeriali hanno enormemente rafforzato — non è il singolo docente ad assegnare i voti di fine anno che decidono il destino dello studente. I professori hanno in pratica un semplice diritto di proposta, ma chi poi decide è il consiglio di classe a maggioranza. Consiglio presieduto ovviamente dal dirigente scolastico il quale, per le ragioni dette sopra, ha tutto l’interesse alla, diciamo così, massima benevolenza; nonché l’autorità per dar libero corso alla medesima. Con il consenso alla fine, però, degli stessi docenti, i quali, se il numero degli studenti diminuisce troppo, potrebbero veder messo in pericolo il loro posto. Avviene dunque una sorta di profana transustanziazione: le più catastrofiche insufficienze si tramutano in sufficienze, gli alunni più svogliati in bravi ragazzi, i più accidentati itinerari scolastici diventano tranquilli passaggi all’anno successivo. E così via fino all’immancabile successo del diploma finale.
Ma a che cosa serve un sistema d’istruzione simile, che non valutando contraddice ogni idea sensata d’insegnamento e di apprendimento? Serve a una cosa soprattutto: a sollevare da ogni responsabilità i partiti e la classe politica, in particolare chi governa; a liberarli dai problemi, dalle proteste e dalle accuse, dalle rivendicazioni, che per due, tre decenni li hanno tormentati ogni volta che in un modo o nell’altro c’entrava l’istruzione. Rinunciando a istituire una scuola che seleziona in base al merito — e dunque, inevitabilmente, che boccia (una parola poco simpatica, ma un altro modo e un’altra parola, ahimè, ancora non sono stati inventati) — essi riescono a dare a credere, specie alla parte meno avvertita dell’opinione pubblica, che ormai esiste finalmente una scuola davvero democratica. La quale, cioè, riuscendo a tener conto delle esigenze anche dei più sfavoriti, porta in pratica tutti gli iscritti al positivo compimento degli studi. E dando a credere che si è così realizzata anche la più importante funzione dell’istruzione nelle società democratiche: quella di rompere i vincoli dell’appartenenza di classe per nascita, assicurando invece l’ascesa sociale dei capaci e meritevoli; che insomma la scuola è veramente l’ascensore sociale del Paese.
Peccato che come indicano tutte le statistiche ciò non sia più vero da tempo. E non è più vero anche, se non principalmente, proprio perché la scuola promuove tutti, cioè non seleziona, e una scuola che non seleziona, che non accerta il merito, è una scuola che in linea di principio rifiuta di fornire alla società, al mondo del lavoro, qualunque attestato affidabile circa le reali competenze, la volontà d’impegnarsi, le capacità di ingegno e di carattere, dei giovani che le sono stati affidati. Rischia cioè di divenire una scuola autoreferenziale, utile solo come parcheggio e per consentire ai politici di dormire sonni tranquilli, illudendo le classi povere che c’è un’istruzione al loro servizio. Che, grazie all’istruzione, c’è per i loro figli quell’avvenire migliore, che viceversa assai difficilmente ci sarà. Quanto alle classi abbienti invece, loro, ormai, hanno capito bene come stanno le cose, e da tempo sono corse ai ripari. O riuscendo in vari modi a sollecitare in questo o quell’istituto specie delle grandi città la formazione di classi di serie A dove concentrare i propri rampolli, ovvero mandandoli a studiare in una scuola straniera o direttamente all’estero.
CORRIERE.IT