Le regole sulla nostra pelle
Le regole sono regole, e dicono che i calciatori non discutono col pubblico. Nemmeno se ti chiami Sulley Muntari, e sei un calciatore ghanese a cui una parte (piccola) del pubblico di Cagliari sta dedicando coretti a imitare il verso della scimmia. Nemmeno se fra quelli c’è un bambino coi genitori a cui, per dare una lezione di garbo, regali la maglietta. E neanche se il pubblico va avanti, e l’arbitro ti richiama, e tu gli fai notare che dovrebbe sospendere la partita. Non puoi perché l’arbitro non la sospende, secondo le regole, perché i cori sono sparuti, e se insisti l’arbitro ti ammonisce.
E se ti scocci, e gridi questo è il mio colore, e abbandoni il campo, vieni espulso e squalificato per un turno. Le regole sono regole, sebbene il commissario Onu per i diritti umani abbia detto che Muntari è stato esemplare, e il Guardian abbia scritto che negli stadi italiani c’è qualche problema di razzismo. Le regole sono regole, persino in Italia, dove più sono sciocche e sorde e cieche e più trovano probabilità di applicazione. Lo sa l’allenatore di Muntari, Zdenek Zeman, che ha difeso il giocatore ma ha aggiunto che non ci si fa giustizia da sé. E lo sapeva meglio di tutti Rosa Parks, la donna di colore che nel 1955 si fece giustizia da sé, violò una regola e non cedette il posto sull’autobus a un bianco. E indignò l’America. E l’aiutò a cambiare.
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