Il popolo delle primarie con i capelli grigi

di ILVO DIAMANTI

QUATTRO MESI FA, dopo il successo del No al referendum costituzionale, Matteo Renzi si era dimesso da premier e da segretario del Pd. Domenica scorsa le Primarie gli hanno restituito lo scettro. Del partito. È, infatti, stato rieletto segretario con circa il 70% dei voti. Gli sfidanti si sono divisi i “resti”. Circa il 20% ad Andrea Orlando, poco più della metà a Michele Emiliano. I votanti sono stimati intorno a 1.850.000. Un numero sicuramente importante, visto il clima politico dell’epoca. Ma sensibilmente in calo, rispetto al passato. La metà, in confronto con le primarie del 2007, le prime utilizzate per eleggere il segretario. Circa un milione – e dunque un terzo – in meno, rispetto alle più recenti, quelle del 2013, che avevano investito della carica Matteo Renzi. In questa occasione, il segretario – uscente e confermato – aveva, abilmente, posto l’asticella della partecipazione attesa piuttosto in basso: 1 milione di votanti. Così, oggi i leader e i militanti del partito possono celebrare le primarie di domenica scorsa come un successo. D’altronde, quasi 2 milioni di persone che escono di casa, per recarsi ai seggi, non sempre vicini, offrono un esempio di impegno democratico civile importante. Tanto più in tempi di disincanto politico, per non dire anti-politico, come questi.

Tuttavia, non possiamo negare che anche l’impegno stia declinando, se confrontiamo i dati dell’affluenza alle urne del Pd con quelli del passato. Un milione in meno, lo ripetiamo. Un calo, peraltro, tanto superiore dove era più forte la partecipazione, in precedenza. Nelle Regioni definite, fino a ieri, “zone rosse”. Non solo dagli studiosi. In Emilia Romagna, in Toscana, ma anche in Umbria e soprattutto nelle Marche: i votanti, in quattro anni, sono quasi dimezzati. Il calo è stato rilevante anche a Roma e nel Nord. Mentre nel Mezzogiorno la partecipazione si è orientata in senso diverso. In Basilicata, Puglia e Abruzzo, in particolare, si è, infatti, registrato un aumento di votanti. Una tendenza sostanzialmente opposta rispetto a quella osservata in occasione del referendum. Quando il maggior livello di opposizione si era manifestato proprio nelle Regioni del Sud. In generale, queste Primarie sottolineano il cambiamento avvenuto negli ultimi anni nel Pd. L’unico soggetto politico capace di mobilitare tante persone sul territorio non appare tuttavia, in grado di suscitare le attese prodotte solo 4 anni fa, nel 2013. Quando Matteo Renzi aveva intercettato consensi ben oltre i confini del suo partito.

L’indagine condotta da CLS, e curata da Fulvio Venturino, Marco Valbruzzi e Antonella Seddone, offre, al proposito, dati espliciti, oltre che interessanti. Si basano su un campione nazionale molto ampio: quasi 3700 persone, intervistate all’uscita dei seggi. Ne emerge un profilo sociale del Pd piuttosto chiaro. La base Democratica appare, anzitutto, prevalentemente anziana. Un “popolo dai capelli grigi”. Il 42% dei votanti, infatti, ha 65 anni e oltre. Un ulteriore 21% supera comunque i 55 anni. All’opposto, i giovani (fra 16 e 34 anni) sono una quota ridotta: il 15%. Non è una sorpresa. Fra gli elettori, infatti, come mostrano i sondaggi, altri partiti attraggono maggiormente i giovani. Per primo: il M5S. Coerentemente, sul piano professionale, la componente più ampia è composta dai pensionati: oltre il 40%. Contano meno, invece, i lavoratori dipendenti, pubblici e privati. In entrambi i casi, intorno al 15%. Come i lavoratori indipendenti, d’altronde. Peraltro, i votanti alle Primarie mostrano un livello di istruzione mediamente elevato. Il 37% in possesso di laurea, qualcuno in più del diploma superiore.

Le tabelle

La base del Pd sta, dunque, invecchiando. Nel 2013, al suo interno, il peso degli anziani (oltre 65 anni) era più limitato: 29%, 13 punti in meno. Mentre i più giovani mostravano un’incidenza superiore di 4 punti.

I Democratici che hanno votato alle Primarie delineano, quindi, un profilo sociale “maturo” e istruito. Politicamente orientato a Sinistra (34%) e a Centro-sinistra (47%). In misura più limitata, al Centro (16%) e anche a Destra (3%). Vale la pena di osservare, però, come l’area di Centro e di Destra abbia registrato, negli ultimi anni, una crescita, seppur contenuta.

Sotto il profilo politico, i “Democratici delle Primarie” hanno votato in larghissima maggioranza a favore del referendum costituzionale dello scorso dicembre: 78%. La stessa percentuale di coloro che esprimono un giudizio positivo verso il governo guidato da Paolo Gentiloni. Ma esiste anche una componente, seppure limitata, di sostenitori distanti dalle politiche del partito. O meglio: del suo leader. E ciò risulta chiaro dall’analisi dei votanti in base al candidato scelto. Condotta, in queste pagine, da Luciano Fasano e Marco Valbruzzi, in modo puntuale. Al proposito, mi limito a osservare come le principali differenze riguardino la Politica e le Politiche. I “partigiani” di Orlando e di Emiliano (questi ultimi, peraltro, addensati prevalentemente nel Mezzogiorno) risultano, infatti, più orientati a Sinistra e a Centro-sinistra (in misura più evidente, nel caso di Orlando). La maggioranza assoluta dei sostenitori di Emiliano, in particolare, ha votato “contro” il referendum e non apprezza il governo Gentiloni.

Le Primarie hanno, dunque, riproposto il “rito fondativo” del Pd (per echeggiare le parole di Arturo Parisi), rendendo visibile la sua presenza sul territorio e nella società. Ma ne hanno rivelato anche i problemi. In qualche misura, il declino. Soprattutto dove più forti sono (erano?) le sue radici. E ciò costituisce un segnale. Evoca il rischio di un “partito” più debole. Che sta invecchiando in fretta.

Perché non basta un leader “forte” al comando a ri-generarlo. Soprattutto quando non è chiaro “se” e “come” intenda farlo.

REP.IT

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