Quel diavolo borghese della sinistra di Francia che non vota Macron
di EZIO MAURO
DUNQUE si può essere di sinistra e non votare contro Marine Le Pen: pur di non votare per Macron. È il nuovo mantra — “né né” — che attraversa un pezzo di elettorato francese radunato nel 19,58 raccolto da Mélenchon al primo turno, e lo assolve preventivamente mentre viaggia verso l’astensione al ballottaggio decisivo per il futuro della République, e forse dell’intera Europa. Manca il tripode con l’acqua di Ponzio Pilato per lavarsi le mani sullo spazio imperiale del Pretorio, all’ora sesta di un giorno in cui il cielo si oscurò. Tutto il resto è pronto. Intellettuali, blogger, filosofi, storici, sindacalisti hanno già fornito la giustificazione teorica a questo tradimento repubblicano che ha come posta in gioco visibile il palazzo dell’Eliseo, ma in realtà arriva a intaccare le fondamenta dello spirito democratico francese e i suoi valori di fondo ereditati dalla Rivoluzione.
Naturalmente c’è la ribellione allo strapotere della finanza, delle banche, dell’Europa, radunate in una trimurti ingigantita e resa così simbolica delle sofferenze di questi anni da diventare il nemico assoluto, ideologico, politico, culturale, addirittura morale. Basta guardarsi intorno per capire le ragioni di questo rigetto. E se non basta, si può ricordare una vecchia frase di Camus: «mai il numero di persone umiliate è stato così grande».
Ma qui, con ogni evidenza, c’è qualcosa di più. Non un progetto alternativo, un’obiezione culturale, un’idea che metta in movimento una politica diversa, di cui avremmo bisogno. C’è quasi un odio antropologico — che non ha nulla a che fare con la politica — per la figura fisica e insieme fantasmatica del tecnocrate che gioca la sfida del governo, mettendo le sue carte sul tavolo, senza camuffare la sua cultura e i suoi programmi nell’opportunismo della rincorsa populista. Così, mentre l’indebolimento degli anticorpi repubblicani e la rabbia popolare facilitano la dediabolisation di Le Pen, un moderno diavolo borghese sale sul trono vacante e diventa il bersaglio della sinistra delusa, dispersa, furiosa. È il politico che crede nella vocazione europea della Francia, nella funzione storica di guida che il Paese ha giocato nella Ue con la Germania, nei vincoli della responsabilità, nella modernizzazione post- ideologica. Tutto quello (in una versione franco-centrista) che nel malandato e diseredato lessico della sinistra italiana abbiamo provato a chiamare da anni “riformismo”, qualcosa che non c’è, e dovrebbe in poche parole coniugare la speranza dell’emancipazione sociale con la responsabilità di governo.
Tra i “né né” naturalmente Michel Onfray è in prima fila, con una vecchia patente di sinistra e una furia iconoclasta che lo ha reso popolare da anni: da Valls ad Attali, a Kouchner, a Cohn-Bendit, «sono i promotori forsennati di una politica liberale che hanno permesso a Marine Le Pen di fare il botto e arrivare al secondo turno». E lo storico Emmanuel Todd gli fa eco nell’intervista ad Anais Ginori: «Votare Front National è approvare la xenofobia, ma votare Macron è accettare la sottomissione. Per me è impossibile scegliere. Considero il lepenismo e il macronismo come due facce della stessa medaglia. Le Pen è il razzismo, Macron è la servitù alle banche e alla Germania. Per questo mi astengo con coerenza, anzi con gioia, aspettando che nasca un mondo migliore».
Con l’astensione ovviamente la sinistra pura e dura ingigantisce il rischio che Marine Le Pen riempia questa attesa accomodandosi sulla poltrona dell’Eliseo. Ma non importa più. L’odio nei confronti del riformismo ha bisogno di minimizzare i rischi del post-fascismo, per sdoganare l’astensione tranquillizzando le coscienze inquiete davanti alla xenofobia del Front. Se Macron è uguale a Le Pen, allora Marine definitivamente non viene più dall’inferno, è una nemica ma come tanti, anzi non è nemmeno la peggiore, entra nella normalità del gioco politico francese, culturalmente accettata, moralmente scusata, storicamente amnistiata. Anzi, esercita una sorta di tacita egemonia culturale, quando la sinistra per accusare la finanziarizzazione macronista usa i termini tipicamente lepenisti di “sottomissione” e “servitù”, che non hanno più al centro il cittadino come soggetto politico universale, secondo la lezione francese, ma lo spirito di Francia, collettivo, nazionalista e patriottico, che Marine vuole resuscitare, per scagliarlo contro l’Europa tiranna.
La frattura culturale e l’infiltrazione avviene anche a destra, nel campo repubblicano, con “tradimenti” singoli e furbizie isolate, come denuncia Alain Juppé, oggi sindaco di Bordeaux, che non ha dubbi: «la vittoria di Le Pen sarebbe uno scisma geopolitico, un disastro economico, una sconfitta morale. Per questo serve un appello solenne a resistere alla tentazione di rompere tutto, di rovesciare il tavolo». È il vero sentimento nazionale, per il bene della Repubblica, che affiora a destra e fatica ad emergere nella sinistra (due terzi degli elettori di Mélenchon sono per l’astensione) ipnotizzata invece dal risentimento per il nuovo nemico, al punto da perdere quel senso della responsabilità nazionale che l’ha sempre contraddistinta.
Perdendo intanto anche il senso morale delle proporzioni, quando Todd teorizza che c’è più da temere «nella fanatizzazione dei benpensanti che nella risorgenza del fascismo ». Faceva tristemente eco, nel corteo del Primo Maggio e a poche ore dalla più pericolosa sfida lepenista alla Repubblica, quello striscione sindacale in boulevard Beaumarchais che archiviava ogni criterio di distinzione, base di qualsiasi buona politica: “Peste o colera, né l’una né l’altra”. Per la sinistra, non è ancora passata l’ora sesta.
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