Lo sport reale e quell’indigesto sapore di plastica

di ENRICO SISTI

ROMA – Qualunque cosa esca dal circuito di Monza, saprà di plastica. Avrà la consistenza di un oggetto ben rifinito ma di scarsa utilità, adatto al mondo degli accorgimenti esasperati alle quali il dio della tecnologia ha assicurato ogni pregio esteriore senza tuttavia provvedere a dotarlo di un sapore, di una qualche forma, anche primitiva, di umanità. In caso di fallimento, ossia se i tre maratoneti non dovessero riuscire, nemmeno uno di loro, a scendere sotto le due ore, saprà di plastica tutta l’architettura scientifica e mediatica che ha fornito l’impalcatura per la faraonica messinscena. Se arrivasse il record l’interno mondo del running, dai grandi professionisti ai piccoli mezzofondisti, giovani e meno giovani, rimarrà a bocca aperta per mesi. Questo è sicuro.

Ma è altrettanto sicuro che per altrettanti mesi dubiterà che simili operazioni possano avere un punto di contatto, uno soltanto, con l’atletica del sudore e della competizione, quell’atletica che non cerca l’ambiente ideale semplicemente perché uno dei postulati di questo meraviglioso sport, possa esso concretizzarsi in maratona o in lancio del disco, è che l’ambiente ideale esiste soltanto dentro l’atleta, perché fuori piove, fa freddo, fra troppo caldo, c’è vento, l’asfalto è irregolare, perché l’alimentazione è stata sbagliata magari soltanto per qualche grammo di proteina di troppo quando di quella proteina di troppo il corpo avrebbe volentieri fatto a meno e perché lo starter s’è svegliato con la luna storta o i calli.

L’esercizio di abilità commerciale che sostiene questo evento sin da quando la Nike ha deciso di metterlo in cantiere nasconde completamente, oscura e in un certo senso mortifica chi, preparandosi, si lancia verso il proprio obiettivo, quale che sia, senza il conforto della preparazione mirata del sistema, ossia delle regole (che qui sono arbitrarie valide soltanto per l’evento) e dell’habitat, che anzi quando l’atletica si celebra nelle sue classiche forme di solito va contro le prestazioni, per natura le ostacola. E’ tutto sistemato. Tutto pronto. Peccato che non abbiano rialzato il circuito a una quota da Città del Messico.

Ma non funziona così nella vita reale. Si decide di correre quando si presume che temperatura e umidità siano favorevoli, al massimo, si stabilisce un percorso su di una superficie liscia e piatta che più piatta e liscia non si più, si studiano scarpe con risposta elastica “borderline”, al limite della tollerabilità della struttura muscolo-legamentosa-tendinea, si assicura che verrà controllato il tutto con test antidoping e si garantisce che lunghezza e misurazione del tempo abbiano una sorta di certificazione “a divinis”. Ma a quale scopo? A garantire un sapore di plastica, appunto, a sostituire per amore di spettacolarità il sudore con la formula vagamente più sospetta di marketing+sudore. Se anche fosse ottenuto il record, che non sarà mai omologato, se anche uno dei tre facesse il miracolo di “grattare” poco meno di sette secondi al chilometro, cosa leggeremmo sugli almanacchi alla voce record del mondo nella maratona: 1h59’56”, detentore Nike. E’ un po’ come preparare atleti eccezionali, con tutte le simulazioni del caso, per un allunaggio effettuato dentro un capannone della Nasa. Senza offesa per un’azienda che regge lo sport con la sua generosa entrata e uscita di capitali, veramente è questo che vogliamo leggere?

REP.IT

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