“Subiamo troppe aggressioni”. Alla Caritas arrivano i vigilantes
Una paura permanente. È il risultato «dell’aumento di tensioni e minacce per i nostri operatori. E non c’è peggior compagna per chi si impegna nel nostro servizio. Si rischia così di reagire in due modi quando un bisognoso bussa alla nostra porta: lo si allontana o se ne diventa schiavi». A parlare è Pierluigi Dovis, direttore della Caritas diocesana di Torino, la cui rete coordina sportelli in ben 130 parrocchie.
E ieri mattina la Caritas ha riunito un centinaio di volontari di chiese, mense, associazioni per seguire un breve corso non sull’accoglienza o sulla pastorale ma, e anche qui è la prima volta, su come difendersi. In platea c’erano suore vincenziane, cappellani degli ospedali e fedeli. Il primo nemico da sconfiggere è il silenzio. «Perché – spiega Dovis – molti volontari hanno pudore e non denunciano quei santi farabutti che ci riempiono di misericordie. E non solo».
Don Agostino Cornale, parroco di Borgo Vittoria, periferia ex operaia, ha raccontato: «Una persona, dopo che gli ho detto che non potevo dargli denaro, mi ha preso a pugni, mi ha lanciato un portaombrelli. Me la sono vista brutta».
La violenza fisica spesso comincia con quella che alla Caritas chiamano «ricatto psicologico e spirituale: visto che siamo la Chiesa, tutto è dovuto». Basta un no a scatenare la rabbia. «I nostri volontari sono 5 mila – dicono dalla Caritas – c’è poco ricambio. L’età media è 70 anni». Sul palco c’è chi parla degli occhiali: «Se li hai, basta un pugno per avere danni seri». Chi del rischio paura: «In un anziano può fare molto più delle botte».
Dall’altra parte del banco c’è un esercito di bisognosi: «Un nostro centro da solo ne accoglie 10 mila l’anno. Il numero non è cresciuto, ma sono sempre più disperati e qualcuno sviluppa una rabbia distruttiva».
Si alza Umberto Lettieri, carabiniere in pensione, volontario di un emporio sociale. «In un caso di aggressione, non dovremmo fare come dice papa Francesco, rispondere con un pugno?». Una battuta per esorcizzare le paure: «Al nostro sportello, un signore è venuto armato di martello. Lo abbiamo allontanato con una specie di Daspo».
L’incontro era fatto col sindacato di polizia Ugl e una società di vigilanza, con un nome da film, Mib, Men in Black. C’era anche Oro, pastore tedesco impegnato nei controlli antiterrorismo in metro, e adesso anche fuori dal centro d’ascolto. Ai partecipanti è stato distribuito il volantino pubblicitario dei vigilantes.
Su richiesta della Caritas, le guardie sono in borghese e senza armi. «La legittima difesa? Non sono per il Far West – dice Dovis – ma non possiamo nemmeno aspettare l’arcangelo Gabriele con la spada». Ai volontari è stato fornito una sorta di decalogo per prevenire episodi di violenza. «È come il fenomeno delle truffe agli anziani – ha spiegato Antonio Zullo, poliziotto e criminologo – voi non rinunciate a far del bene, ma con certe regole». Non restare mai soli. Dotarsi di telecamere. Scrivere alla questura il numero degli utenti e i problemi di sicurezza. Alcuni accorgimenti sono psicologici, altri tecnici: «Dovreste dotarvi di un dispositivo collegato con le forze dell’ordine».
Ma per Dovis bisogna riorganizzare anche i servizi: «Meglio aprire un giorno in meno, ma in sicurezza, quando si è in due». Wally Falchi, responsabile del centro di ascolto Le due tuniche, spiega il perché a suo dire i volontari catalizzano la violenza: «Perché siamo l’ultima spiaggia. Chi viene da noi le ha già provate tutte, ha ricevuto no dalle case popolari, dai servizi sociali. Ora cerchiamo di tutelarci, ma c’è da riflettere su questa rabbia».
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