Boschi chiese a UniCredit di comprare la banca del papà

Pubblichiamo alcuni stralci dell’ultimo libro di Ferruccio De Bortoli, “Poteri forti (o quasi). Memorie di oltre quarant’anni di giornalismo” (edizione La Nave di Teseo), in uscita l’11 maggio. In un passaggio, De Bortoli parla del ruolo dell’allora ministra per le Riforme, Maria Elena Boschi, nella vicenda di Banca Etruria, di cui il padre era vicepresidente. La ministra, secondo quanto scrive De Bortoli, chiese all’allora amministratore delegato di UniCredit, Federico Ghizzoni, di valutare una possibile acquisizione della banca aretina.

Scrive De Bortoli:

“L’allora ministra delle Riforme, nel 2015, non ebbe problemi a rivolgersi direttamente all’amministratore delegato di Unicredit. Maria Elena Boschi chiese quindi a Federico Ghizzoni di valutare una possibile acquisizione di Banca Etruria. La domanda era inusuale da parte di un membro del governo all’amministratore delegato di una banca quotata. Ghizzoni, comunque, incaricò un suo collaboratore di fare le opportune valutazioni patrimoniali, poi decise di lasciar perdere”.

Così continua De Bortoli

L’industriale delle scarpe Rossano Soldini mi ha raccontato di aver avuto molti sospetti sul ruolo della massoneria locale nella gestione dell’istituto. Elio Faralli, che ne fu padre-padrone per circa 30 anni, fino al momento in cui fu costretto a lasciare il timone a Giuseppe Fornasari, era notoriamente un massone. Soldini fece molte domande scomode, in particolare sul ruolo del consigliere Alberto Rigotti, il cui voto, probabilmente invalido, fu decisivo per eleggere Fornasari. Rigotti ebbe prestiti dalla banca, mai rientrati, e finì in bancarotta con il suo gruppo editoriale. I consiglieri dell’Etruria godettero di affidamenti per un totale di 220 milioni. Gli organi statutari erano del tutto ornamentali.

Non sarebbe il caso di chiedersi se anche legami massonici o di altra natura non trasparente siano stati all’origine della concessione di troppi crediti facili e della distruzione di molti piccoli risparmi? A maggior ragione ora che alcuni istituti di credito vengono salvati con i soldi dei contribuenti? Alessandro Profumo, ex presidente del Monte dei Paschi, il 15 giugno 2016, durante la presentazione del libro di Fabio Innocenzi Sabbie mobili. Esiste un banchiere per bene? (Codice, 2016) rispondendo a una domanda sul tracollo del Monte dei Paschi se ne uscì con questa frase: «La colpa è tutta della massoneria». Se ne parlò poco. Profumo mi spiegherà poi di avere avuto sempre la sensazione che ci fossero fili sotterranei, strane appartenenze. E che il sospetto dei legami massonici emergesse soprattutto quando si trattava di assumere qualcuno, constatando i diffusi malumori per un no inaspettato. E ha usato un esempio dalla Settimana Enigmistica. Unisci i puntini e scopri il disegno. Ma quanti sono i puntini? E qual è il disegno?

D’Alema, Cuccia e il futuro di Mediobanca

La privatizzazione di Telecom, nel 1997, può essere considerata un punto di svolta nella storia industriale del Paese. Era la condizione per poter entrare nell’ Unione monetaria. Il ticket dell’ ammissione. Salato. Prevista dall’ accordo Andreatta-Van Miert. Il gruppo Agnelli vi partecipò distrattamente, con l’ Ifil che ebbe una quota modesta del cosiddetto «nocciolino». Cesare Romiti era favorevole a una maggiore diversificazione del gruppo torinese: «Ma Agnelli voleva concentrarsi sull’ auto e la famiglia temeva che fosse un modo attraverso il quale avrei potuto espropriare l’ azienda».

«Telecom all’ epoca era la migliore d’ Europa», ricorda Fabiano Fabiani, amministratore delegato della Finmeccanica, «dava lavoro a centomila persone, non aveva debiti, fu la prima a introdurre la fibra ottica». E, aggiungiamo noi, aveva contribuito a rendere l’ Italia – insieme alla Omnitel generata dalla Olivetti – il Paese europeo più avanzato, competitivo ed efficiente nel settore della telefonia cellulare.

La designazione del primo presidente della Telecom privata, Gian Mario Rossignolo («un estraneo al business», lo definisce Fabiani), fu la prova della scarsa volontà dei nuovi azionisti, che in totale controllavano solo il 6 per cento. Insomma, dei privatizzatori controvoglia. Con il braccio corto.

E scelsero la persona sbagliata. La debolezza azionaria esporrà il gruppo alla famosa scalata dei «capitani coraggiosi», guidati da Roberto Colaninno che, nel febbraio del 1999, lanciò un’ Opa da 100 mila miliardi di lire. Il presidente del consiglio, Massimo D’ Alema, convocò una riunione con il ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, il titolare dell’ Industria, Pier Luigi Bersani e quello delle Finanze, Vincenzo Visco. Era stato chiesto alla Guardia di finanza di indagare sui componenti della cordata, senza trovare nulla.

Si decise, con una lettera di Ciampi all’ allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi, l’atteggiamento che il governo, in parte azionista, avrebbe avuto nella vicenda. Un’ operazione di mercato, certo. Ma avventata perché caricava inesorabilmente di debiti, per il 70 per cento dell’ Opa, la società.

Un’ operazione finanziata con il debito bancario e con l’ incasso ottenuto dalla cessione di Omnitel e di Infostrada ai tedeschi di Mannesmann e con un aumento di capitale della Olivetti per 2,6 miliardi di euro.

Un ruolo decisivo lo ebbe, come advisor , Mediobanca. Ricordo, come esemplare di una nuova era un po’ muscolare e aggressiva, l’ episodio del tappo di champagne che esce da una finestra di Mediobanca, durante i festeggiamenti per il successo dell’ offerta.

Carlo Mario Guerci, economista consulente dell’ operazione, ne andava fiero: «Si sono aperte le finestre del capitalismo». Potevano tenerle chiuse, risposi.

Qui si compie un passaggio decisivo nel cambiamento di pelle dell’ istituto di via Filodrammatici. Un segno del declino, anche nel giudizio di Cesare Geronzi che di Mediobanca sarà poi presidente. Massimo D’ Alema, presidente del Consiglio dal 1998 al 2000, aveva avuto l’ opportunità di conoscere Cuccia a casa di Alfio Marchini.

E negli incontri si era parlato anche del futuro dell’ istituto e della determinazione del presidente onorario di vedere il proprio delfino, Vincenzo Maranghi, come suo naturale successore. Il potere peraltro lo aveva già di fatto in mano. Cuccia andò una volta a trovare D’ Alema a Palazzo Chigi, insieme a Maranghi, ma decise di non farlo entrare nello studio del capo del governo.

Lo lasciò fuori. «Sì è vero», ricorda D’ Alema, «volle parlare a tu per tu con me. Discutemmo del futuro di Mediobanca. Io gli proposi come presidente Mario Draghi. A mio parere, l’ istituto doveva cambiare pelle e ridisegnare il capitalismo italiano. Non poteva limitarsi a essere la cassaforte che garantiva il controllo di pochi grandi gruppi. Gli dissi: normalizzatevi e la persona giusta è Draghi». E il presidente onorario di Mediobanca come reagì?

«Apprezzava Draghi ma difese Maranghi, con affetto quasi paterno, mi descrisse il suo carattere di uomo mite ma determinato. E poi mi chiese di farlo entrare».

Cuccia morirà poco dopo, il 23 giugno 2000. Nella ricostruzione di Geronzi, Cuccia accettò di sostenere l’ Opa dei «capitani coraggiosi» in cambio della continuità di Mediobanca. «Io non chiesi a Cuccia di sostenere Colaninno», aggiunge D’ Alema, «e ci tengo a dire in questa circostanza, perché di leggende sulla Telecom ne ho lette molte, che non conoscevo nessuno dei protagonisti dell’ Opa.

Colaninno l’ ho conosciuto in seguito. Cuccia mi disse che la situazione era insostenibile, che l’ azienda andava malissimo, senza una vera proprietà. Cuccia riteneva insopportabile l’ arroganza di Umberto Agnelli. Volevano che impedissi l’ Opa. Chiedemmo un parere al Consiglio di Stato, c’ era un problema di normative europee. La scelta del governo, anche per la propria quota, fu di neutralità. Né aderire né sabotare. Si scatenò il finimondo. De Benedetti, in odio a Colaninno, fece il diavolo a quattro. E sa chi fu l’ unico a non fare pressioni? L’ avvocato Agnelli, il quale mi disse che l’ establishment di questo Paese, mediocre e vendicativo, lo definì così, me l’ avrebbe fatta pagare».

Nel 2001 la quota degli scalatori, con un’ ingente plusvalenza, verrà rilevata dalla Pirelli di Marco Tronchetti Provera e da Edizione dei Benetton. A un prezzo elevato, seppur in linea con i multipli dell’ epoca, corretto dopo lo choc planetario delle Torri Gemelle. Tronchetti fu sfortunato, non amato dal centrosinistra, ma commise anche degli errori. «Gli dissi un giorno», ricorda ancora Geronzi, «che non era un imprenditore. Era un buon manager e ha trattato bene con i cinesi di ChemChina, salvaguardando il suo ruolo».

Il debito di Telecom al 30 settembre 2001 era di 22,6 miliardi, mentre quello di Olivetti era di 17,8. Complessivamente gravava sul gruppo un debito di 40,4 miliardi. (…) Nel 2007, al termine della gestione Tronchetti, era di 35,7 miliardi. Gilberto Benetton ammette oggi che l’ investimento in Telecom fu un grosso errore. «Ma può capitare».

La perdita? Circa due miliardi. Del resto il suo gruppo è stato il protagonista delle privatizzazioni meglio riuscite. (…) «Ricordo che un giorno», continua Benetton, «chiamai Umberto Agnelli perché noi volevamo solo Autogrill, la grande distribuzione non ci interessava. E lui mi rispose che Autogrill l’ aveva già promessa a un fondo inglese. Ma non era vero, era solo un modo per tenerci lontani. Il gruppo Agnelli, nelle privatizzazioni, non aveva molta voglia di pagare». (…)

Le privatizzazioni tutti le chiedevano, tra gli industriali, pochi però erano pronti a mettere mano al portafoglio e rischiare in proprio. Afferma Fulvio Coltorti, ex direttore dell’ ufficio studi di Mediobanca, che le privatizzazioni furono viste da gran parte dell’ impresa privata italiana come un affare eminentemente finanziario, raramente industriale.

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