La parabola del giudice onorario

«Siamo come gli schiavi nelle piantagioni di cotone». Lo sfogo di Monica Cavassa, tra i leader dei giudici onorari, sarà pure una forzatura. Ma certo la protesta delle toghe «precarie» appese a una provvisorietà prorogata da due decenni, ha radici profonde. E dopo avere scavato un solco con l’Associazione nazionale magistrati rischia di sfociare davvero in uno sciopero pesante che potrebbe mettere in ginocchio i tribunali. Riassunto: incapace di dotarsi di un organico distribuito equamente sul territorio, all’altezza di un Paese litigioso («Lì si vede la Lite calzata e vestita», scriveva Montesquieu) e impigliato in leggi astruse, il governo ebbe nel 1998 una bella pensata. Visto che i concorsi per assumere nuovi giudici portavano via un sacco di tempo e gli arretrati intanto si accumulavano, aprì le porte ad alcune migliaia di magistrati onorari. Un’apertura temporanea: primo contratto di tre anni e poi di proroga in proroga. Si sa com’è l’Italia: il provvisorio slitta sempre, per indolenza, verso l’eterno. Risultato: poco a poco, i precari han finito per avere un peso sempre più centrale. Fino a sbrigare dieci anni dopo coi giudici onorari di tribunale (Got) la totalità delle esecuzioni immobiliari e coi viceprocuratori onorari (Vpo) la quasi totalità delle cause penali davanti al giudice monocratico.

Il tutto con l’incancrenirsi man mano di due problemi. Di qua l’instabilità di un sistema giudiziario che nella vita quotidiana si regge per una buona metà dei processi sui precari. Di là l’instabilità di questi «onorari» (poco meno di 5.000 contro le 8.519 toghe ordinarie) solo in parte così fortunati da avere un altro lavoro e chiamati a svolgere funzioni delicatissime senza avere, con la scusa della provvisorietà, il minimo del minimo: previdenza, ferie, assistenza sanitaria, maternità… Tanto da scandalizzare anche la Commissione europea.

A farla corta: uscire da questa ambiguità era (e resta) indispensabile. Ma come? Niente strappi, raccomandava una lettera di 110 (su 120) procuratori capi italiani invitando il governo a ricordare che gli «onorari» sono una «componente rilevante degli assetti delle Procure della Repubblica al punto che, senza la loro attività, gli Uffici che abbiamo l’onore di dirigere, verrebbero a trovarsi in situazione di grave crisi e di notevoli difficoltà».

Soluzione: una sanatoria? «Mai chiesta!», saltano su Paola Bellone e i rappresentanti dei precari: «Vogliamo solo aver una figura stabile e le tutele ovvie: maternità, contributi, copertura sanitaria…». L’Anm però è diffidente. Certo, «va riconosciuto che da quindici anni, a causa della cronica carenza di organico e della sempre crescente domanda di giustizia, i magistrati onorari hanno fornito un contributo significativo»… Ma le richieste di “stabilizzazione” «non possono trovare ingresso nel nostro ordinamento per ragioni di carattere costituzionale». Cioè? «L’illegittimo abuso del rinnovo dei contratti a tempo determinato, nel pubblico impiego, non comporta la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato ma il diritto del lavoratore al risarcimento dei danni». C’è infatti il «vincolo costituzionale del concorso pubblico».

Conclusione: il decreto, denunciano i ribelli, offre agli «onorari» di restare ma solo part-time, «per non più di due giorni di udienza a settimana» (inizialmente uno) per una «componente fissa tra i 12.900 ed i 16.000 euro lordi annui». Un migliaio al mese. Da cui togliere «l’imposta sul reddito (27%) e i contributi da versare alla gestione separata Inps (posti interamente a carico dei lavoratori, cosa mai vista nella storia della Repubblica) o alla Cassa Nazionale Forense». Quanto resterà al netto? Settecento euro? «Si chiede efficienza con due giorni di impiego settimanali? Si chiede impegno, senso di appartenenza, raggiungimento di obiettivi?», chiede polemica una lettera collettiva al procuratore di Milano Francesco Greco. Segue monito: «Il cittadino chiederà giustizia dei disservizi. Altrettanto faranno, però, anche i 5.000 magistrati onorari, sfruttati per anni e trattati indegnamente».

Come andrà a finire non si sa. Difficile pretendere che un cinquantenne che fino a ieri ricavava dal lavoro di «onorario» la sua unica busta paga possa sopravvivere con quell’obolo per due giorni di udienza più altri due per preparare le cause o possa trovarsi un altro part-time. Come è difficile immaginare che certi uffici giudiziari che per ammissione corale reggono oggi l’urto di migliaia di processi possono tener botta in attesa dell’assunzione (campa cavallo…) di nuove toghe ordinarie. Il solo costo dell’inefficienza della Giustizia civile, stando a un rapporto di Bankitalia, pesa sulla nostra economia per almeno 22 miliardi l’anno di mancati investimenti e ricadute varie. Auguri.

Sul piede di guerra, gli «onorari» minacciano ora un mese di sciopero. Per cominciare. E la tensione sale di giorno in giorno. Prova ulteriore, se mai ne avessimo avuto bisogno, di quanto la scelta di rinviare per anni e anni i problemi porti quasi sempre in un vicolo cieco. Dovremmo saperlo, no? Ci ricaschiamo sempre.

CORRIERE.IT

 

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