“Banche nazionalizzate? Rischioso metterle in mano alla politica”
Corrado Passera, lei è stato banchiere, amministratore di una grande società pubblica come Poste, ministro. Cosa ne pensa delle polemiche sul caso Banca Etruria?
Sta di fatto che dopo oltre due anni stiamo ancora parlando di Banca Etruria solo per via del conflitto d’interessi di Maria Elena Boschi, non crede?
«Il caso delle 4 banche di cui Etruria è una, così come le due venete e Mps, sono tutti esempi di mala gestione, controlli inadeguati e sicuramente di ingerenze indebite della politica. Il risultato è che come contribuenti ci troviamo adesso a mettere 20-25 miliardi per sanare queste situazioni. Se poi emergeranno anche ulteriori conflitti di interesse, vedremo, ma basta quello che sappiamo per essere indignati».
Le polemiche sulla commistione tra politica e affari sono una costante del dibattito. È una caratteristica solo italiana?
«In quasi tutti i Paesi occidentali il pubblico controlla direttamente tra il 30 e il 50 per cento del Pil. Il pubblico, inoltre, ha un’ingerenza “necessaria” nel mondo dell’economia perché ha la responsabilità delle leggi, del sistema dei controlli e della politica industriale. Non si tratta di separare ciò che non può essere separato, ma di contrastare le ingerenze indebite».
Come si supera?
«Riducendo drasticamente la presenza del pubblico nella gestione di imprese di mercato. Privatizzando la miriade di società partecipate dagli enti locali, ad esempio. E facendo una politica basata su interventi d’incentivazione alle imprese di tipo strutturale (Industria 4.0 è un buon esempio) e non contributi “ad impresam”, magari a fondo perduto: da ministro ho cancellato 42 leggi di quel tipo e le assicuro che non è stato facile. Quante resistenze !».
Lei era ministro durante il governo Monti. Non sarebbe stato meglio nazionalizzare Mps allora invece di intervenire con i Monti-bond?
«In linea di principio sono contrario alla nazionalizzazione delle banche perché credo che una banca nazionalizzata si presti a ingerenze politiche: essere arrivati a farlo è stato un enorme danno al Paese e una grave responsabilità per chi ci ha concorso. All’epoca dei Monti-bond ci era stato mostrato che sarebbe stato sufficiente un intervento a condizioni di mercato per gestire la crisi di liquidità. Evidentemente non era chiaro a chi gestiva e amministrava la banca l’effettivo stato dei conti e la situazione è andata peggiorando».
E adesso?
«I problemi sono stati lasciati marcire. Fino all’estate scorsa si poteva ancora tentare e io ho fatto una proposta in questa direzione. Ma non hanno voluto sentirci e ora siamo oltre il punto di non ritorno».
Tra Mps, Veneto Banca e Popolare Vicenza il governo si appresta a tornare un player di primo piano del mercato bancario. Quali i sono i rischi dello Stato banchiere?
«Di rimettere il credito in mano alla politica. È necessario che la politica assicuri un rispetto che non ha avuto in passato. Una delle prove di tale impegno sarà la qualità del management e dei cda che verranno nominati e la velocità con la quale verranno riprivatizzate le banche».
Da banchiere è stato protagonista del salvataggio di Alitalia nel 2008, fortemente voluto dal governo Berlusconi. Lo rifarebbe?
«L’Alitalia pubblica è fallita miseramente. Abbiamo lavorato per far nascere un’azienda sostenibile, presentandola allora alle principali compagnie del mondo che però non si sono rese disponibili. Abbiamo trovato investitori privati e convinto Air France ad entrare comunque nella nostra compagine per integrarsi a termine. Me ne sono occupato fino al 2011 e tra il 2008 e il 2011 il bilancio Alitalia è passato da 500 milioni di perdite all’anno a 50/60 milioni, malgrado prezzi del petrolio alle stelle, guerre in Medio Oriente, Sars ecc. C’era un piano di ulteriore efficientamento che – anche tenendo conto dei fattori straordinari – avrebbe comunque portato l’azienda alla sostenibilità. Purtroppo, successivamente, si è voluto cambiare strada, ci sono state scelte errate di management, la strategia di Ethiad si è dimostrata sbagliata e Alitalia è tornata di nuovo a 500 milioni di perdite. L’operazione è finita male, ma valeva la pena di prendersi questo rischio: c’era lo spazio per una compagnia aerea focalizzata sul turismo e sul commercio da e per l’Italia, era giusto portare Alitalia in un grande raggruppamento europeo e provare a salvare 30.000 posti di lavoro».
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