L’Ue attacca sui rifugiati: “Il nostro piano è fallito anche per colpa di Roma”
C’è la mancanza di solidarietà degli altri Stati. Ci sono vincoli troppo rigidi per avere accesso al programma. Ma se il piano di redistribuzione dei richiedenti asilo non ha funzionato, la colpa non è solo di Bruxelles e dei partner europei. Una grossa fetta di responsabilità è anche dell’Italia. Impreparazione, mancanza di coordinamento, disorganizzazione, ritardi, burocrazia e in qualche caso pure malafede: è uno studio del Parlamento Europeo (redatto dai tecnici, non dai politici) a fotografare la situazione e a evidenziare tutti quei fattori che hanno portato il piano al fallimento. Gli eurodeputati ne discuteranno martedì a Strasburgo e giovedì voteranno una risoluzione per chiedere a tutti i Paesi Ue di fare la loro parte, ma ormai il tempo stringe ed è impossibile raggiungere gli obiettivi entro settembre: su 98.255 ricollocamenti previsti (63.302 dalla Grecia e 34.953 dall’Italia) siamo fermi a quota 18.396 (12.685 dalla Grecia e 5.711 dall’Italia).
Parola chiave: “Aspetta”
I tecnici del Parlamento segnalano una «impreparazione diffusa» da parte degli attori in campo. Tutto ciò causa ritardi e «incertezze tra i richiedenti asilo». «La prima parola che imparano in italiano – sottolinea lo studio – è “aspetta”». A tutto ciò si aggiunge una forte «mancanza di coordinamento» (responsabilità condivisa con «gli organismi internazionali e l’Unione Europea») che si traduce in una «duplicazione dei controlli, alcuni dei quali inutili». Quindi spreco di tempo e di soldi.
Dispersione sul territorio
Nel report c’è anche una critica al sistema di accoglienza «diffuso», tipico dell’Italia. Si parla di «dispersione» perché «il fatto che i richiedenti asilo siano sparsi lungo il Paese rende i controlli sanitari più difficili e ritarda i processi di trasferimento». Anche perché c’è una moltiplicazione dei passaggi: i centri di prima accoglienza si trovano in genere nel Sud Italia, poi però i migranti vengono trasferiti al Centro o al Nord. Ma per andare all’estero devono passare da Roma, che è l’unico centro per le partenze.
Inadempienze e malafede
C’è poi un problema legato al mancato rispetto delle procedure. Rispetto alle autorità greche (anche loro oggetto dello studio) quelle italiane spesso «non forniscono la lista completa delle informazioni» necessarie agli Stati che devono accogliere i richiedenti asilo, come la situazione sanitaria o i legami familiari. Quest’ultimo aspetto rende difficili i ricongiungimenti. Un capitolo a parte è dedicato agli hotspot, in cui sorgono parecchi problemi. Ci sono difficoltà nella determinazione della nazionalità dei migranti, che in molti casi ricevono «un ordine di lasciare il territorio senza aver avuto accesso alle procedure per effettuare una domanda d’asilo». Nei centri di accoglienza spesso i rifugiati non ricevono tutte le informazioni del caso e «devono scontrarsi con molte barriere amministrative». Molti si rassegnano e abbandonano i centri, «con il rischio di movimenti secondari».
Vincoli stretti
Lo studio definisce «problematici dal punto di vista legale ed etico» i parametri per individuare i richiedenti asilo che hanno diritto alla redistribuzione. Sono definiti a livello europeo e su questo l’Italia non ha responsabilità. Il criterio non è soggettivo, ma legato alla nazionalità: ne hanno diritto solo quelle il cui tasso di riconoscimento delle domande d’asilo è superiore al 75%. Ad oggi le nazioni sono Siria, Eritrea, Yemen, Antigua, Bahrain, i territori britannici d’oltremare, Guatemala e Grenada (cambiano ogni tre mesi in base ai dati Eurostat). Un paletto che riduce drasticamente la platea dei “candidabili”: in Grecia attualmente sono 14.000, in Italia sono soltanto 3.500.
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