C’è un nuovo laboratorio in Occidente

Maurizio Molinari

Negli ultimi dieci mesi Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia hanno vissuto bruschi cambiamenti di leadership innescando un laboratorio di innovazioni contrastanti e su più fronti che hanno però un punto di convergenza: la volontà di sconfiggere le diseguaglianze per rilanciare la crescita e rigenerare la fiducia nelle istituzioni democratiche.

 Londra, Washington e Parigi sono il cuore dell’Occidente perché hanno espresso le rivoluzioni politiche e sociali da cui si sono originati i diritti degli individui e poi, nel Novecento, li hanno difesi dall’assalto dei totalitarismi contribuendo in maniera decisiva alla crescita economica della comunità delle democrazie nell’area geografica che si estende da Vancouver a Vilnius. Si è trattato di un processo storico non lineare, controverso, costellato di successi, conflitti e fallimenti, frenato da tragedie ed accelerato da scoperte. Ma proprio la centralità avuta, a fasi alterne, nella formazione dell’Occidente da Londra, Washington e Parigi ci spinge oggi a osservare con attenzione ciò che le accomuna in questa stagione di incontenibili cambiamenti.

 

A Downing Street dal 13 luglio dello scorso anno si trova Theresa May che insediandosi denunciò la «bruciante ingiustizia dovuta al fatto che se siete nati poveri vivrete nove anni meno degli altri».

 

Alla Casa Bianca dal 20 gennaio scorso risiede Donald J. Trump che nel discorso dell’Inaugurazione parlò di «carneficina americana» per riassumere «madri e figli intrappolati nella povertà, industrie arrugginite e disseminate come tombe, un’istruzione priva di conoscenza e le città infestate dalle gang». Ed all’Eliseo, sette giorni fa, è arrivato Emmanuel Macron promettendo ai francesi di «combattere ogni forma di diseguaglianza e discriminazione per garantire la vostra sicurezza». La convergenza nell’indicare le diseguaglianze nel nemico da battere si registra a dispetto di ricette sulla crescita che non potrebbero essere più differenti perché May scommette sull’uscita dall’Ue per accelerare i commerci, Trump su tagli fiscali e protezionismo per risollevare le manifatture e Macron su una maggiore integrazione europea per creare lavoro e attirare investimenti. Tanto più aspre sono le differenze fra i nuovi leader di Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia, tanto più è significativa la loro convergenza nel voler sanare le ferite sociali ed economiche causate nel ceto medio durante la stagione della globalizzazione. Ciò che accomuna May, Trump e Macron è la convinzione che lo scontento è tale da minare le istituzioni democratiche, generare un domino di proteste e pregiudicare la prosperità futura. Da qui la necessità di trasformare l’Occidente in un laboratorio di riforme capaci di generare un nuovo modello di società che includa anche, come suggerisce un recente studio della Fondazione Ford, il «diritto alla protezione dall’ingiustizia» perché secondo l’ultimo sondaggio di «YouGov» la grande maggioranza degli abitanti di 11 Paesi europei su 12 – l’eccezione è la Danimarca – ritiene che «il sistema sia ingiusto». La tesi esposta dall’ex presidente americano Barack Obama davanti al parterre del «Seeds and Chips» di Milano è che «le tecnologie possono accelerare le diseguaglianze» perché allontanano dal lavoro milioni di persone prive della necessaria istruzione e competenza. Ma la risposta a tale sfida, osserva Daron Acemoglu docente di Economia all’Università di Harvard, non può essere l’abbandono delle tecnologie in una sorta di antistorica fuga nel passato bensì «lo sviluppo di nuove tecnologie capaci di essere usate anche dai lavoratori non qualificati». Al fine di vincere la sfida di armonizzare innovazione, crescita e tutela dei disagiati. Ecco perché ci troviamo immersi in una stagione rivoluzionaria, capace di partorire modelli di prosperità, diritti sociali e innovazioni tecnologiche tali da rigenerare la formula dello sviluppo delle democrazie avanzate. Selezionando, di conseguenza, le classi dirigenti della generazione dei Millennials.

LA STAMPA

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