La politica senza partiti e la ricchezza privata

Senza soldi non si fa politica. Tra i tanti significati generali che possono essere attribuiti alla recente elezione del presidente francese ce n’è uno che è rimasto fin qui alquanto in ombra: l’indicazione, per l’appunto, della quantità di risorse di cui deve disporre oggi in un regime democratico un candidato per avere la speranza di vincere in una simile competizione. E il caso vuole che il candidato del cui bilancio sappiamo di più sia proprio il vincitore, Emmanuel Macron. Ne sappiamo di più grazie all’esame che il quotidiano Libération nel numero del 12 maggio scorso ha fatto delle mail scambiate per mesi dal suo entourage. Mail che, anche se rivelate dalla pirateria informatica (non si sa da chi: forse dai russi, c’è un’inchiesta in corso per appurarlo), il giornale ha comunque deciso di rendere pubbliche e di analizzare per il loro evidente interesse generale. Veniamo così a sapere che alla vigilia delle elezioni En marche!, il movimento del presidente, è arrivata a mettere insieme e a spendere in un anno la non disprezzabile cifra di circa 15 milioni di euro. A cominciare da quando, all’inizio, è un gruppo di una trentina di familiari di Macron che decide di sostenerlo staccando ognuno un assegno di 7.500 euro (limite annuale consentito dalla legge francese per le donazioni politiche: che pare sia stato sempre rispettato). Da questo momento inizia una girandola impressionante di cene, colazioni, brunch, cocktails, con una regia attentissima a contattare solo donatori definiti «pesci pilota» perché in grado di condurre ad altri donatori.

La quale regia si deve a un ex alto dirigente di Bnp Paribas e al tesoriere del movimento, Cédric O, anch’egli alto dirigente di un gruppo industriale. Dalle mail emergono 78 grandi donatori che prima ancora che Macron lasci il suo incarico di ministro versano ognuno più di 4mila euro. Tra essi molti dirigenti di banche d’investimento francesi, di società di gestione di capitali, quadri della banca Rotschild compresi due dei suoi massimi dirigenti, nonché fondatori o dirigenti d’imprese del settore digitale, e alcuni avvocati d’affari. Uno dei «pesci pilota» che si dà particolarmente da fare specialmente in Belgio, dove risiede, è Olivier Duha, ex presidente di un’organizzazione padronale e cofondatore di un’azienda di telemarketing la cui capitalizzazione ammonta a un miliardo di euro. Ma oltre che a Bruxelles Macron può contare su banchieri che gli organizzano pranzi e cene in Inghilterra (ben sei visite) e a New York, dove dell’organizzazione dei suoi contatti s’incarica da par suo Christian Déseglise, uno dei direttori internazionali della Hsbc, che in termini di asset è la seconda azienda bancaria del pianeta. Il quale, in una mail chiede notizie «sulle modalità di ricezione delle donazioni» al fine, a sua volta, di «fornire istruzioni precise». Gli incontri per la raccolta dei fondi avvengono in genere nelle case dei donatori. Prevedono 15 minuti di saluti, venti minuti di «speech», venti di domande e risposte, e poi l’incasso. Che arriva anche al 60 per cento del massimo ipotizzabile considerato il numero dei partecipanti.

Alla fine Libération tira le somme: è vero — come si è affrettato a sottolineare l’entourage del Presidente — che il numero delle donazioni superiori ai 5mila euro ha rappresentato solo l’1,7 per cento del totale delle donazioni a favore del candidato di «En marche!». Ma è pur vero che quell’1,7 per cento di donazioni ha rappresentato, da solo, poco meno della metà (il 45 per cento) dell’intero ammontare di quanto è affluito nelle casse di Macron. Senza quell’1,7 per cento la musica sarebbe stata ben diversa. Da quanto fin qui detto è difficile non trarre almeno tre lezioni.

1) Se nei regimi democratici scompaiono i tradizionali partiti organizzati (Macron, lo ricordo, non aveva inizialmente alcun partito dietro le spalle), se non ci sono o latitano le grandi associazioni sindacali e di categoria, e se non esiste il finanziamento pubblico alla politica, allora tutto il meccanismo politico-elettorale non può che essere fatalmente dominato dalla ricchezza privata. Da quella dei singoli ricchi o, più facilmente, dalla ricchezza istituzionalizzata delle banche e dei grandi interessi finanziari in genere. Non è lecito dedurne sic et simpliciter che allora la politica sarà al servizio dei «ricchi». Ma certo è arduo pensare che stando così le cose essa possa mai prendere decisioni che gli dispiacciano. O che possano arrivare al governo persone che non abbiano il loro consenso di massima.

2) Una tale situazione, come si capisce, ha conseguenze decisive sull’immagine e sulla realtà dei regimi democratici . E’ un carattere intrinseco della democrazia, infatti — perlomeno della democrazia come storicamente si è sviluppata ed è stata vissuta dai popoli dell’Occidente — una condizione fisiologica di tensione tra la politica e la ricchezza. Per l’ovvia ragione che, da una parte, la maggioranza degli elettori non sono ricchi, e, dall’altra, che per prendere i provvedimenti che in genere essi reclamano la politica deve necessariamente prelevare risorse da chi ce le ha: cioè per l’appunto dai ricchi. Ma se tale tensione scompare, se l’elettorato si convince che con il suo voto non riuscirà mai a difendere o ad affermare i propri interessi contro gli interessi dei «beati possidentes» perché di fatto sono loro i «padroni» della politica, allora per i regimi democratici si apre la prospettiva di una catastrofica crisi di consenso.

3) L’ultima lezione riguarda l’Italia. Immaginare, come da anni si fa qui da noi, che la politica possa costare quattro soldi è una pura ipocrisia. Che serve a coprire due ipocrisie ancora più grandi: quella della «democrazia elettronica» cara ai grillini, dove con un semplice clic su un computer tutti sarebbero in grado di dire la loro su tutto, sebbene non sapendo e non decidendo realmente nulla; e poi l’ipocrisia delle cosiddette «fondazioni», di cui ogni esponente politico o gruppo si è dotato da anni. Le quali, dietro presunte finalità culturali, servono solo a raccogliere soldi dalle imprese e dalle banche, in barba a ogni limite e divieto, e a utilizzarli al di fuori di ogni controllo per fare politica. Mentre la sola misura capace di ridurre in quantità significativa i costi della politica (e dunque il bisogno di denaro) — cioè un sistema elettorale fondato sul collegio uninominale maggioritario — quella, naturalmente, continua a non avere la minima probabilità di essere adottata.

CORRIERE.IT

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