I miei diciotto mesi di leva: una formidabile scuola di vita
Il mio scaglione – come si diceva allora – è stato l’ultimo a fare un anno e mezzo di servizio di leva, dal luglio ’55 al Natale ’56. E a costo di prendermi gli improperi dei molti milioni di italiani che hanno detestato la naia, dirò subito che quel periodo è stato – sul piano umano – uno dei più interessanti e formativi della mia vita.
Quando mi arrivò la famosa cartolina, ero studente universitario e già muovevo i primi passi nel giornalismo, per cui avrei potuto chiedere un rinvio; avvalendomi di un amico di famiglia (come ahimè si usa nel nostro Paese) avrei potuto anche ottenere l’esenzione. Invece preferii partire subito, come soldato semplice, destinazione il Car di Orvieto. Approfittando del fatto che, con gli italiani più piccoli di oggi, e il limite era un modesto 1,75, chiesi di essere assegnato ai Granatieri di Sardegna, in cui avevano militato alcuni miei avi nelle guerre del Risorgimento. All’arrivo al Centro di addestramento, l’ufficiale addetto alle selezioni, vedendo che avevo una certa istruzione e scrivevo bene a macchina, mi propose un ambitissimo posto in fureria. Con suo immenso stupore, rifiutai: ero destinato a passare la mia vita dietro a una scrivania – gli spiegai – per cui preferivo fare un’esperienza diversa, completa di ginnastica, esercitazioni di tiro, marce forzate e tutto il resto. Ma, soprattutto, volevo vivere quei tre semestri in mezzo a ragazzi provenienti da altre regioni e appartenenti ad altri ceti per conoscere un po’ meglio il mio Paese. Inutile dire che eravamo in un’altra Italia, più semplice, più povera, ma forse – come dire – più genuina di quella di oggi. Così, scoprii subito che il mio compagno di branda, un gigantesco scaricatore del porto di Catania di nome La Barbera era analfabeta. Ciò nonostante, diventammo amici: lui mi rifaceva la branda, e in cambio io gli scrivevo le lettere alla fidanzata. Il problema era che anche questa era analfabeta, e che per lei rispondeva il parroco; e dal momento che ogni tanto io usavo espressioni un po’ audaci, la corrispondenza fu molto stimolante.
Il Car di Orvieto era una cosa seria: si faticava, si apprendeva la disciplina e anche, nei limiti di allora, a fare la guerra. Imparai a usare il Garand, il (pesantissimo) fucile allora in dotazione all’Esercito, a strisciare per terra con il passo del gattino, a lanciare bombe a mano: tutte cose che mi sarebbero tornate utili, anzi in una circostanza mi salvarono la vita, quando quasi vent’anni dopo feci il corrispondente di guerra in Vietnam.
Ma, soprattutto, frequentando i miei compagni di plotone, feci un bagno nella realtà del mio Paese, e mi resi conto di che cos’è la solidarietà. Finito l’addestramento, a ottobre mi assegnarono al reggimento per cui avevo fatto domanda, che allora aveva sede a Roma, in Prati. Mi resi subito conto che, nel centro di una grande città, la vita sarebbe stata molto diversa, con tante sfilate e guardie al milite ignoto, per cui feci domanda di essere trasferito all’Aquila, dove in un piccolo distaccamento venivano formati i reparti speciali. Mi assegnarono al Servizio I, I per informazione, una specie di Sifar reggimentale. L’ambiente, certo, era diverso: qui tutti avevamo studiato, tutti avevamo già un’idea del nostro futuro, ma provenivamo da regioni diverse di un Paese che la tv non aveva ancora unificato; e anche da questi miei compagni ho imparato molte cose che mi sono poi servite nella vita. L’Aquila era allora una bella cittadina, ma non era certo Roma: per molti miei commilitoni, il passatempo preferito era di andare a visitare (era prima della legge Merlin) uno dei due bordelli della città. Io preferivo passare le serate a studiare, con disciplina imparata in divisa; e ancora oggi sono convinto che, senza gli esami dati in divisa, non sarei mai riuscito a laurearmi.
Finiti i corsi di specializzazione e ormai promosso caporale, sono tornato al reggimento, dove non sono riuscito a sottrarmi a un periodo di ufficio. Ebbi perciò maggiori contatti con gli ufficiali, i più anziani dei quali erano reduci da una guerra perduta. Ciò nonostante, c’era un’atmosfera positiva, e soprattutto la convinzione che, se ognuno faceva la sua parte, il Paese si sarebbe risollevato presto. Per utilizzarmi al meglio, mi promossero caporalmaggiore e mi affidarono il compito di allenatore della squadra di atletica leggerai. E qui ritrovai il mio amico La Barbera, cui insegnai a gettare il peso abbastanza lontano perché arrivasse secondo ai campionati nazionali. Fu bello, e non ho vergogna a confessare che, arrivato il momenti del congedo, non feci festa.
Mi rendo conto che tutto questo, ormai, è preistoria, che nelle guerre tecnologiche di oggi i soldati di leva non servono e comunque mantenerli costerebbe troppo. Ma sono convinto che, se ci fosse ancora un servizio obbligatorio, anche se con fini sociali e non militari, ci sarebbero meno «centri sociali» e meno delinquenza giovanile. Spero che quella specie di surrogato che ha in mente la Pinotti serva in qualche modo a sostituirlo.
IL GIORNALE