Quando la madre rimproverava Matteo: “Basta urlare, così fai star male il babbo”
«Andrai a processo, ci vorranno tre anni e io lascerò le primarie… Stai distruggendo un’esperienza…». Due marzo, vigilia dell’interrogatorio a Roma di Tiziano Renzi: e Matteo – il figlio – annota così, in una drammatica telefonata col padre, una delle conseguenze possibili di una condotta (quella del genitore, appunto) che non gli piace e non lo convince. I toni sono aspri, taglienti. Toni, a dirla tutta, in linea con giorni tetri, pessimi: senz’altro i peggiori della sua fulminante e osteggiata ascesa.
Nella telefonata col vecchio Tiziano (che qualcuno ipotizza addirittura fatta ad arte: sapeva di essere intercettato e per questo veste i panni dell’inflessibile uomo di Stato) il sospetto emerge con nettezza. Ma non è solo in quel colloquio che amarezza e rabbia tracimano con violenza incontrollabile. Chi ha ascoltato i suoi sfoghi in quei giorni di fango racconta – oggi – di un uomo tormentato da un dubbio atroce.
Ed ecco, dunque, il racconto di chi, in più riprese, ha raccolto i rovelli e i sospetti dell’ex premier in quella prima e drammatica settimana di marzo. Faccia a faccia e telefonate (non intercettate…) imbarazzate e dolorose. L’interlocutore di Renzi è persona amica e fidata: e nei colloqui – racconta – invita più volte l’ex premier alla fiducia e alla calma.
«Io non so più cosa fare – si sfogava Matteo Renzi – perché sono anni che dico a mio padre di starsene calmo e tranquillo, ma non c’è niente da fare. Sapessi quante volte ho dovuto mandare da lui amici comuni a dirgli di starsene da parte, di non mettermi in difficoltà. Lui ascolta, ma poi fa sempre di testa sua…». Non c’entra – o non c’entra ancora – l’affare Consip, ma sono comunque discorsi dolorosi e complicati: un figlio contro un padre, o un padre contro un figlio. Con tutto quel che può significare in una famiglia semplice abituata ai modi e alle tradizioni di un tranquillo paesotto di provincia.
«Quando gli amici non bastano, tocca a me discuterci – spiegava Matteo Renzi -. E non è facile. Abbiamo anche litigato, certo. Ci siamo rinfacciati cose, abbiamo urlato. E quando la discussione si faceva agitata, era una mortificazione perché in salotto arrivava mia madre e mi rimproverava: “Matteo, la devi smettere! Basta urlare! Lo sai che tuo padre soffre di cuore, così lo fai morire”…».
Un padre, una madre e un figlio a litigare in salotto. Situazioni difficili, dove politica, affetti ed etica si fondono in una matassa difficile da districare. «Che poi – aggiungeva Renzi negli sfoghi con l’amico fidato – bisogna anche che io ci vada con i piedi di piombo… Perché che vuoi che ti dica: mio padre è un pasticcione, però io credo che questa faccenda, Romeo, la Consip e il resto, finirà come Tempa Rossa, te la ricordi? Anche allora una consultazione – all’epoca il referendum sulle trivelle, oggi le primarie – anche allora un’inchiesta piena di fughe di notizie e poi tutto archiviato, ma con un ministro massacrato e costretto alle dimissioni…».
Erano i pensieri in quei giorni di fango. Oggi, però, qualcosa sembra cambiato. Renzi fatica a credere al padre, ma riflette su quanto accaduto fin’ora. Le fughe di notizie, e va bene. Le guerre tra Procure, e va bene. Il danno politico e il terremoto in famiglia, e va bene pure questo. Ma i ripetuti e inspiegabili falsi di ufficiali dei carabinieri che manomettono intercettazioni e occultano informazioni per tirare in ballo lui – l’ex premier che cerca la riscossa – quello no. «Appena il Pd risale nei sondaggi cercano di colpirmi», annotava ieri. È un fatto. Come è un fatto, però, che i guai da cui è circondato arrivino tutti e sempre da lì: da quella enclave tosco-fiorentina ormai trasformatasi da scelta discussa in vera e propria maledizione.
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