Tribunali e intercettazioni il doppio processo italiano

Perché da anni non si riesce a correggere ciò che tutti criticano nel sistema della intercettazioni, e cioè gli abusi, le violazioni della privacy, le fughe di notizie? E perché un disegno di legge sulla giustizia penale presentato dal governo Renzi, che potrebbe aprire la strada a una parziale riforma, langue da quasi tre anni in Parlamento?

Di solito la colpa di questi ritardi si dà ai partiti. Però non saremmo onesti se omettessimo un particolare decisivo: il sistema delle intercettazioni regge com’è, chiunque sia al governo, perché le intercettazioni sono popolari, e i partiti di solito non fanno cose impopolari. Meno che mai Renzi adesso, proprio mentre intercettano lui, e in tempi già pre-elettorali: il che fa temere che anche per questa legislatura non se ne faccia niente.

Perché sono popolari le intercettazioni? Forse è questo il punto da discutere. Lo sono perché in molti casi vengono considerate l’unica sanzione possibile per i potenti. La crisi della giustizia italiana, la sua lentezza, la capacità di ottenere la prescrizione degli imputati eccellenti, rendono sempre più rare le sentenze, specialmente nel campo delle inchieste sui cosiddetti “colletti bianchi”. Gli italiani hanno capito che difficilmente, e chissà quando, il processo farà giustizia e la pena sarà certa. Dunque accettano, e purtroppo talvolta sollecitano, una giustizia più sommaria.

L’intercettazione, con il carico di ambiguità di una conversazione privata trascritta su un brogliaccio (e con i frequenti travisamenti, omissioni ed errori di trascrizione), si presta perfettamente alla bisogna, anche perché consente sentenze immediate nell’opinione pubblica, nel giro di qualche settimana, mentre il processo si avvia con le sue pachidermiche movenze. Quanto ai politici, preferiscono colpirsi reciprocamente e a turno con il brogliaccio disponibile, aizzando così il pubblico, invece che educarlo alle regole dello stato di diritto, per le quali un indagato non è un imputato, un imputato non è un condannato, e un condannato non è un colpevole fino a sentenza definitiva. Si sta aprendo così un divario molto ampio e pericoloso tra la giustizia dei tribunali e quella dell’opinione pubblica. E non soltanto perché le sentenze talvolta scagionano personaggi già condannati in piazza, magari costretti alle dimissioni o alla gogna, senza poterli però risarcire. Ma anche per la sensazione di confusione, di incertezza, di pesi e misure diverse tra le procure, che si sta diffondendo e che non giova certo alla giustizia.

Prendiamo il caso della telefonata di Tiziano Renzi. La procura di Roma, che lo indaga, ha dichiarato che quella intercettazione, richiesta invece dalla procura di Napoli, non è utilizzabile nel processo che lo riguarda. Ma quella stessa intercettazione è utilizzabile eccome, e anzi utilizzata, e anzi utilissima, nel processo in corso nell’opinione pubblica nei confronti del cosiddetto Giglio Magico. E a riprova dell’ambiguità insita in questi spezzoni di conversazione trascritti, viene brandita contemporaneamente come prova a discolpa da parte di chi difende i Renzi, e a carico da parte di chi li accusa.

Siamo ormai fuori anche da quello che un tempo si chiamava «circuito mediatico-giudiziario», perché ci sono brandelli di indagine che vivono vite diverse e separate nel «giudiziario» e nel «mediatico», come rette parallele che non sono destinate mai a incontrarsi. Clamoroso il caso della presunta intercettazione in cui Berlusconi avrebbe dato giudizi irriverenti sulla signora Merkel, noti ormai a tutto il mondo e tradotti in tutte le lingue ma mai apparsi in un qualsiasi atto. Questo andazzo è pericoloso innanzitutto per il processo penale, per la sua credibilità e la sua centralità. La parte più consapevole della magistratura lo sa benissimo, ed è per questo che ha proposto correttivi e talvolta li ha addirittura messi in pratica con forme di auto-regolamentazione, come ha fatto la procura di Roma da tempo. E dove questo è accaduto, il miglioramento c’è stato. Non resta che trasformare al più presto quelle regole di buon senso in norma giuridica valida per tutti. Ma ancor più importante è affrontare nel profondo le cause della caduta di credibilità del nostro sistema giudiziario, se vogliamo convincere l’opinione pubblica che si può avere giustizia anche senza lo spettacolo.

La cosa più inutile e puerile sarebbe, nell’epoca di Wikileaks, cercare di alzare una diga a valle, senza chiudere il rubinetto a monte, punendo cioè la pubblicazione invece che frenando la diffusione degli atti di indagine. In tutto il mondo i giornalisti cercano e pubblicano informazioni riservate o segrete, è il loro mestiere. Ma in nessun altro Paese circola una tale mole di carte giudiziarie segrete o riservate. E questo non potrebbe accadere senza la complicità o la negligenza di qualche investigatore e di qualche magistrato, troppo spesso a caccia di popolarità.

CORRIERE.IT

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