Film lunghi al cinema e il secondo spettacolo finisce in crisi

Steve della Casa
 

Quando Orson Welles diresse il suo fondamentale «F for Fake», iniziava dicendo che avrebbe raccontato per un’ora e mezza solo la verità. Il film durava un’ora e quaranta, e con questo espediente fece uno sberleffo a tutto il pubblico che aveva seguito con grande interesse la storia di un falsario credendo per l’appunto si trattasse solo della verità. Bene, oggi Welles avrebbe dovuto aggiornarsi. I film durano infatti ormai molto di più, superano di norma le due ore e un espediente del genere sarebbe completamente superato.

 Il problema è che anche molte altre cose sono nel frattempo superate. Il programmatore di una sala non può più fissare con calma i quattro spettacoli quotidiani di prammatica, perché dovrebbe iniziare alle 14 e finire oltre l’una di notte. Inoltre, lo spettatore che si reca in sala a vedere i film ha ormai un’età media davvero importante, e certi orari non li potrebbe sopportare. Il combinato disposto tra l’età media (dello spettatore) e la durata media (del film) sta producendo una rivoluzione epocale. L’ultimo spettacolo è ormai quasi sempre alle 21, massimo 21 e trenta. Uno spettacolo in meno, ma anche la certezza di evitare una sala semivuota all’ultimo spettacolo. E quindi è consigliabile prima una cena leggera e veloce (quando non un temibile «apericena», come viene chiamato l’ingolfarsi in piedi al bancone di stuzzichini variamente mediocri), poi il film e a casa a un’ora decente. Peccato che in questo modo il potenziale pubblico sia comunque destinato in ogni caso a ridursi: due spettacoli hanno ovviamente potenzialità migliori di uno solo.

 

Ma questo allungamento dei film è così necessario? A giudicare dai film che si vedono, si direbbe proprio di no. Alessandro Manzoni tagliò pagine e pagine del suo romanzo fino a ridurre a solo tre parole le avventure erotiche della Monaca di Monza: «La sventurata rispose», con tutto quello che ne conseguì e che il lettore poteva ampiamente intuire senza che lo scrittore entrasse in dettagli. L’ellissi, anche nel cinema, è molto meglio della verbosità, proprio come Manzoni aveva intuito per il romanzo storico. Quando si vedono ripetitivi spostamenti in macchina, uscite di case raccontate dalla chiave che chiude l’uscio di casa fino all’avvio dell’automobile senza risparmiare l’attesa per l’ascensore, il saluto alla portinaia e la breve camminata sul marciapiede in cerca del veicolo, ci si domanda se tutto questo sia un contributo autoriale o non piuttosto una fiacca pigrizia del regista in sede di montaggio. Dennis Hopper, pur avendo a disposizione per il suo «Easy Rider» gli squarci più belli dell’America profonda e le canzoni stupende di Roger McGuinn, non ci ha fatto sentire per intera neanche una canzone: voleva correre, aveva il senso del ritmo. Oggi la lentezza narrativa prevale, assieme al gusto per la ripetizione. Il risultato è che il secondo spettacolo si sta estinguendo, e che i film di mezzanotte sono già oggi un lontano ricordo. Per dire: se uscisse un nuovo «Rocky Horror Picture Show», dovremmo vederlo portandoci dietro la borsa dell’ufficio. E sarebbe sicuramente un’altra cosa.

LA STAMPA

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