Chi sono i 23 cervelli rientrati in Italia (per merito di un conte)
Sono 23 cervelli «in movimento», di cui gli ultimi due, Luca Fava — biologo bolzanino che ha lavorato al Max Planck Institute e a Innsbruck — e Davide Cacchiarelli — romano, genetista per Harvard e l’Mit — ancora con le valigie in mano e gli scatoloni pieni di appunti scientifici da svuotare. Ma non sono cervelli in fuga. Al contrario: di rientro. Controcorrente. Ventitré storie di burocrazia battuta, finanziamenti importanti (senza non si fa nulla), meritocrazia, forse anche di cocciutaggine: quella che ci vuole per invertire il trend, combattere gli stereotipi e dimostrare che si può fare. Elisabetta Vitali, direttore dei programmi italiani, ex banker, li definisce anche un «po’ matti» per questa loro testardaggine. Fava, 33 anni, in agosto tornerà in Italia, dopo anni di vagabondaggi scientifici, per istituire il suo laboratorio presso il Cibio, il Centro per la biologia integrata dell’Università di Trento. E Cacchiarelli, nato nel 1984, sta già approntando il suo nuovo centro all’Istituto Telethon di genetica e medicina, Tigem, di Napoli.
La fondazione
Gli altri 21 che li hanno preceduti in questi ultimi anni garantiscono della serietà del programma (solo uno di loro, finito il ciclo, ha deciso di rilasciare l’Italia, ma non può dirsi sconfitto, al limite lo siamo noi): la squadra speciale di recupero cervelli in fuga in campo biomedico è la Fondazione Giovanni Armenise Harvard. Una storia che merita di essere raccontata anche per le motivazioni umane che si scoprono alle sue origini: la decisione del conte Giovanni Auletta Armenise di creare, nel 1996, una Fondazione in nome di suo zio (che nel 1950 aveva aperto la prima azienda per la produzione di penicillina in Italia) nacque dall’amore per la moglie, Dianora Bertacchini, scomparsa a causa di un tumore al cervello nel ‘94.
Da Harvard
Dopo aver cercato in tutto il mondo le migliori terapie disponibili, i coniugi arrivarono al Massachusetts general hospital e alla Harvard medical school. Non ci fu nulla da fare. Ma da quella terribile esperienza nacque, insieme all’allora rettore della Harvard medical school, Daniel Tosteson, l’idea di finanziare la ricerca di base. Visto da un punto di vista sistemico il problema dei cervelli in fuga è un po’ come quello delle migrazioni dei volatili (senza offesa per gli scienziati): il tema non è tanto vederli partire quando arriva la brutta stagione. Piuttosto è quello di non vederli ritornare in primavera. Per questo la Fondazione si dedica proprio a questo: l’import per riequilibrare l’export nella bilancia dei cervelli. L’approccio altro non è che quello adottato da Paesi come gli Stati Uniti i cui centri di ricerca e le cui società sono dei porti di maree in quanto ad etnie: cinesi, indiani, russi.
Il meccanismo virtuoso
Anche nel caso della fondazione, che fino ad oggi ha speso 31 milioni in programmi di rientro, il passaporto non è un vincolo. Anche se a presentare i propri progetti per ottenere il finanziamento sono quasi tutti italiani (ci sono tre eccezioni). Ognuno di loro ha un curriculum che prova che avrebbero potuto lavorare dove volevano. Come in effetti hanno fatto prima di essere riassorbiti (Alberto Bacci è l’unico ripartito). La Fondazione ha la sua sede alla Harvard medical school di Boston e in questi vent’anni ha investito più di 60 milioni di dollari ad Harvard oltre ai 31 nella ricerca di base italiana (tema spinoso non solo nel nostro Paese visto che i grandi centri, come i famosi Bell Labs, l’hanno abbandonata e anche le università, con budget pubblici sempre più magri, si rivolgono ad altro): i programmi vengono finanziati per cinque anni con circa un milione a progetto. Il meccanismo virtuoso funziona: i 21 precedenti cervelli rientrati con il Career development award della fondazione hanno raccolto più di 38 milioni in ulteriori grant. Rientrare si può.
CORRIERE.IT