Le regole che i partiti non hanno
Quasi un anno fa, l’8 giugno del 2016, la Camera approvava la legge — che si deve soprattutto a Matteo Richetti e Paolo Fontanelli del Pd — sulla disciplina dei partiti in attuazione all’articolo 49 della Costituzione. Da allora il testo, sintesi di 22 diverse proposte, giace al Senato. Si dirà: ma se non riusciamo a fare nemmeno una legge elettorale come si può pensare di riformare i partiti? Giusto. Ma arrendersi alla paralisi legislativa, non discuterne nemmeno, equivale a una colpevole distrazione. Un’ammissione di fallimento, prima culturale che politico. Dunque, almeno proviamoci. La riforma dell’articolo 49 sarebbe una cura ricostituente per tutti. Soprattutto per formazioni deboli ed evanescenti esposte ai peggiori personalismi, come dimostra il ginepraio delle liste alle prossime Amministrative. Il legame con iscritti e cittadini è più solido se ci sono seri antidoti al trasformismo. I cambi di casacca, per esempio, hanno interessato finora, in questa legislatura, 319 parlamentari. La fiducia nelle istituzioni cresce se c’è trasparenza nella selezione dei candidati e sull’origine dei finanziamenti a gruppi e correnti. Un governo di coalizione sarà quasi inevitabile nella prossima legislatura. E le alleanze si reggono sulla disciplina, anche interna, dei partiti. La proprietà del simbolo va meglio regolata. Non è un soprammobile alla mercé dei più furbi. Per non parlare della cassa.
«Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere, con metodo democratico, a determinare la politica nazionale», è scritto nell’articolo 49 della Costituzione. Secondo il giurista Emanuele Rossi (Sant’Anna, Pisa), gli stessi costituenti hanno voluto conservare un margine di ambiguità a quel «metodo democratico», anche per coordinarlo meglio con la piena libertà associativa prevista dall’articolo 18 della Carta. Nonostante questo, molte associazioni sono tenute a rispettare, per legge, nella loro vita interna, un metodo democratico (persino quelle venatorie). Ma il cittadino è ugualmente libero di iscriversi a una organizzazione che non sia per nulla democratica, in cui il capo o il padrone decida a suo piacimento. E le leadership contemporanee — nota il politologo Nicola Pasini ( Statale, Milano) — fanno volentieri a meno dei partiti, spesso ridotti a scatole vuote o a mere start up. Macron è all’Eliseo senza che il suo movimento La République en marche! sia stato ancora votato. Trump è alla Casa Bianca contro il volere dei repubblicani. Anche Blair fece strame delle regole interne al Labour.
L’articolo 49 è rimasto inattuato per decenni. Troppi i timori di una eccessiva invasività dello Stato nella vita dei partiti e di uno sguardo indiscreto sui bilanci. L’esistenza di statuti è stata prescritta recentemente — dalla legge 96 del 2012 e dal successivo decreto-legge 149 del 2013 — e solo ai fini dell’accesso al due per mille. La riforma Richetti regola la scrittura degli statuti, indispensabili per dimostrare l’esistenza di un metodo democratico, in mancanza dei quali non è possibile presentare liste alle elezioni. Ciò conferisce a iscritti e cittadini il diritto di opporsi a decisioni (o espulsioni) illegittime e amplia il loro grado di partecipazione. Ma non sarebbe certamente un bel giorno, nell’ottica della separazione dei poteri, la convocazione di un congresso, previsto dallo statuto, su imposizione di un giudice. Ecco spiegata la prudenza nell’attribuire alle associazioni non riconosciute, quali sono i partiti, una personalità giuridica a tutto tondo. L’equilibrio fra diritti e interessi collettivi è delicato. La riforma, pur con i suoi limiti, lo rispetta.
Nell’analisi di un’altra giurista, Ginevra Cerrina Feroni (Università di Firenze), il testo è migliorabile soprattutto su due punti. La trasparenza sui finanziamenti specie per il rapporto, a volte incestuoso, fra partiti e fondazioni o tra società e movimenti. E il delicato, e oggi oscuro, processo di selezione dei candidati, la cui competenza ricadrà inevitabilmente sulla qualità delle politiche pubbliche. Non c’è nemmeno l’obbligo di curriculum. Forse, nello scrivere un nuova legge elettorale, si toglieranno i capilista bloccati (con le norme attuali l’80 per cento di deputati e senatori potrebbe essere semplicemente nominato). Ma se ciò non dovesse, malauguratamente, avvenire, e anche se si tornasse ai collegi uninominali, un po’ di chiarezza sulla selezione delle candidature non sarebbe inutile. Riavvicinerebbe i cittadini ai partiti e alle istituzioni. La riforma Richetti trova l’opposizione dei Cinque stelle, ovvero dei paladini della trasparenza, delle trattative in streaming. Incomprensibile. Non vogliamo pensare che sia legata alla preoccupazione di spiegare un po’ meglio i rapporti tra la Casaleggio&Associati e il movimento che aspira a vincere le prossime elezioni.
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