Minniti: “Almeno per i prossimi vent’anni il nostro futuro si gioca in Africa”
«La sicurezza è di sinistra». Marco Minniti è agile nel giocare coi paradigmi del dibattito pubblico per adeguarli alla insidie della Storia che accelera e moltiplica le difficoltà che l’Italia, come il resto dell’Occidente, deve affrontare. I nemici si chiamano «paura e disagio», ed è qui che l’uomo del Viminale tenta di marcare le differenze, per dare un’impronta politica alla visione da ministro la cui missione è tecnica.
La dottrina di Minniti ha in effetti due volani. Uno va dal basso verso l’altro, «impone una forte agenda nazionale per rendere credibile quella sovranazionale». E’ la dimensione internazionale che lo porta ad attirare l’attenzione sull’Africa, dove «nei prossimi vent’anni si giocherà il futuro del Pianeta». Coniuga migranti e politica estera, avverte che occorre dialogare con le fazioni politiche di Tobruk e Tripoli per stabilizzare la Libia, ma che non ci sarà pace dimenticando le tribù. E’ grazie a loro, ricorda, se si è fatto emergere dal dimenticatoio il confine meridionale libico, a tutti gli effetti «la prima frontiera dell’Europa: occuparsi di questo, vuol dire occuparsi di noi».
Le tribù guadagnano peso nella crisi dello stato nazionale che alimenta quella delle istituzioni sovranazionali come Ue e Onu. «Il solo modo di rilanciarle è dar loro più potere – incalza Minniti -. Tuttavia, per avvicinarle ai cittadini si pone la necessità di innestare una forte agenda nazionale». Ovvero il secondo movimento. Quello dall’alto al basso, la spinta necessaria per curare la malattia che colpisce ruolo e funzioni delle classe medie. Il cancro che con le sue fobie sazia le diseguaglianze.
«La classe dirigente deve ascoltare la voce del disagio senza girarsi dall’altra parte». Un luogo, una qualunque piazza, «ha bisogno della polizia, ma anche dell’illuminazione, delle politiche sociali, dello sviluppo urbanistico». Soprattutto, recisa Minniti, «ha bisogno che quella piazza sia vissuta». L’Isis lo sa bene, argomenta il ministro. «Produce paura in modo radicale: e se riesce a farci stare in casa ha vinto un pezzo della partita».
In circostanze simili, potrebbe rivelarsi facile ma «sbagliatissimo», non separare islamismo e terrorismo. Il secondo movimento forza un «nuovo rapporto col territorio». «Io cerco con insistenza il rapporto coi sindaci: a Milano abbiamo fatto il patto per l’accoglienza diffusa, siglando l’idea di stato nazionale che vive nel rapporto fra centrale e locale, fra Viminale e municipi, indipendentemente dal colore della giunta».
L’accoglienza è il perno qualitativo del futuro, ragiona Minniti. «Più diffusa è, meglio è; l’accoglienza con piccoli numeri e non con grandi centri crea più propensione all’integrazione». Proprio la capacità di integrare gli pare il limite della solidarietà. «Chi non si integra è più esposto al fenomeno della radicalizzazione, dunque al terrorismo». Da Charlie Hebdo in poi, «chi ha colpito non era siriano, ma il figlio della mancata integrazione nella nostra società». La morale è che «ogni democrazia che si rispetti accoglie chi ha bisogno in piena trasparenza», fa rispettare le leggi, coopera. E così toglie il terreno di sotto ai piedi delle tribù assassine e quelle della politica. Le quali, prova a predire il ministro, «non potranno mai governare il mondo».
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