Quel virus dentro l’islam
Non era solo, ovviamente, il terrorista della strage di Manchester. Ieri hanno arrestato il padre (un predicatore islamico), il fratello e altri conoscenti.
Tutta gente che nella migliore delle ipotesi appunto conosceva le intenzioni criminali del congiunto e quanto meno ha taciuto, anche se è evidente che qualcuno ha materialmente collaborato all’attentato. Altro che «cani sciolti» e disquisizioni sulle prime e seconde generazioni. Dentro la comunità islamica apparentemente integrata ci sono sacche pericolose pronte a esplodere quando e dove meno te lo aspetti. Sono sacche che il più delle volte – anche in questa – vengono individuate dai servizi ma poi la cosa finisce lì. Non tanto per mancanza di mezzi e risorse ma perché le leggi ordinarie – soprattutto se parliamo di soggetti con regolare cittadinanza – impediscono nella maggior parte dei casi di andare oltre un generico stato di allerta.
Questo per dire che l’attentato di Manchester non sarebbe andato a buon fine se l’Europa tutta si fosse dotata di leggi speciali che permettessero di arrestare, o comunque neutralizzare, persone anche solo sospettate di avere a che fare con l’Isis, un po’ com’è avvenuto in Italia ai tempi del terrorismo politico e come in parte ancora avviene nella lotta alle mafie.
Il problema, tecnicamente, non sarebbe complicato da affrontare. È che manca la volontà politica, perché il farlo sarebbe ammettere che una religione, l’islam, e la sua comunità laica sono state infettate e che, quindi, vanno messe in quarantena.
A questa via non c’è alcuna alternativa, a meno di non volere continuare a contare i nostri morti. E scoprire ogni volta a cose fatte che sapevamo tutto prima, tutto meno il giorno e il posto esatto. La sicurezza nazionale non può continuare a essere una lotteria dove ogni tanto vinci ma il più delle volte perdi. Di questo dovrebbero parlare, i grandi del mondo al G7 che si apre domani a Taormina. Il resto, di fronte alle foto dei ragazzi di Manchester, ci appassiona davvero poco.
IL GIORNALE