Le amministrative, il primo vero test politico
di ILVO DIAMANTI
IN ITALIA tutte le elezioni hanno significato “politico nazionale”. Le consultazioni amministrative del mese prossimo non fanno eccezione. Anzi. D’altra parte, si voterà in oltre 1000 Comuni, distribuiti in tutto il Paese. Tra questi, 4 capoluoghi di Regione (Catanzaro, Genova, L’Aquila e Palermo) e 25 Capoluoghi di Provincia. Ancora: 8 città al voto hanno più di 100mila abitanti e 153 più di 15mila.
Per questo si tratta di un test “politico” importante. Il più importante, dopo il referendum costituzionale dello scorso dicembre. Ed è probabile che l’esito stesso dell’imminente voto amministrativo contribuisca ad assecondare oppure a scoraggiare la tentazione di chiudere anzitempo la legislatura.
Le elezioni “comunali”, d’altronde, hanno assunto un ruolo “politico” particolare, fin dai primi anni Novanta. Quando permisero di sperimentare nuovi modelli istituzionali, di fronte alla crisi della Prima Repubblica. L’elezione diretta dei sindaci, nel 1993, divenne, infatti, il metodo per rispondere alla crisi dei partiti e della classe politica, in mezzo al terremoto di Tangentopoli. I sindaci divennero, allora, gli interpreti delle istituzioni. Per dare un volto a una democrazia “impersonale”, lontana dalla società.
Dal 1993 in poi, non a caso, l’elezione diretta è stata estesa in ogni direzione. In particolare, ai Presidenti delle Regioni. In seguito, anche ai leader dei partiti, attraverso le primarie. Infine, agli stessi Capi di governo, “indirettamente eletti in modo diretto”, vista la tendenza a indicare sulle schede elettorali il nome dei leader delle coalizioni. In questo modo, la politica si è “personalizzata”.
Spinta dai media e, in particolare, dalla televisione, che hanno progressivamente riempito il vuoto lasciato nella società e sul territorio dal declino dei partiti di massa. Difficile dimenticare la generazione dei sindaci eletti direttamente in quella fase. In tutte le latitudini del Paese. Da Nord a Sud, passando per il Centro. Basti pensare, fra gli altri, ad Antonio Bassolino, Francesco Rutelli, Riccardo Illy, Massimo Cacciari, Leoluca Orlando, Enzo Bianco. Così, i sindaci si sono imposti come soggetti di democrazia – e di rappresentanza – diretta. In soccorso al logoramento della democrazia rappresentativa. Anche per questo, in seguito, alcuni di essi sono divenuti leader “nazionali”. Talora: capi del governo. Si pensi (ancora) a Rutelli, Veltroni. Allo stesso Renzi.
Infine, le elezioni comunali hanno favorito l’affermazione di nuovi soggetti politici. Da ultimo, ma non certo per importanza, il M5s. Proprio 5 anni fa. Nel 2012. Quando Federico Pizzarotti conquistò Parma. E offrì al M5s non solo visibilità, ma fondamento. Perché fornì la prova che il M5s non era solo una rete di movimenti e di associazioni. Ma un “partito”. Magari, un “non-partito”. In grado di conquistare il governo. Delle città, dapprima. Poi, si vedrà… Le ambizioni di governo del M5s, peraltro, sono state amplificate alle amministrative dell’anno scorso. Per questo il voto di giugno sollecita tanta attenzione. Perché, comunque vada, determinerà effetti rilevanti. Non solo nelle città coinvolte. Ma sul piano nazionale. Sul consenso dei leader di partito e di governo. Sulle alleanze attuali e potenziali.
I sondaggi condotti da Demos per Repubblica e pubblicati nei giorni scorsi sono, dunque, interessanti. Anche se mancano due settimane dal primo turno e un mese dall’eventuale ballottaggio. La realtà potrebbe rivelarsi diversa, com’è già avvenuto in passato. Perché, senza considerare i limiti del metodo adottato, la campagna elettorale è tuttora in corso. Molti elettori (oltre 2 su 10) devono ancora decidere. E l’esito del primo turno può cambiare profondamente il clima d’opinione. Com’è avvenuto l’anno scorso, quando ha, certamente, “lanciato” i candidati del M5s. A Roma, ma soprattutto a Torino.
Il sondaggio di Parma, comunque, suggerisce come Pizzarotti oggi disponga di una notevole legittimazione personale. Se 5 anni fa era il portabandiera della sfida del M5s al sistema, oggi appare protagonista della sfida del sistema al M5s. Un “non-partito” che, tuttavia, ha assunto alcuni vizi dei partiti contro i quali è nato e dichiara di combattere. Anzitutto, la centralizzazione. Meglio: la “personalizzazione centralizzata”. È, infatti, significativo come al possibile successo di Pizzarotti, a capo di una lista “personale”, corrisponda l’insuccesso (possibile) del candidato e della lista del M5s.
Anche a Genova, dove la storia di Grillo ha “radici” profonde, il candidato del M5s, Luca Pirondini, è minacciato dalla concorrenza, per quanto limitata, espressa dalle liste presentate da due fuoriusciti. Fra loro: Marika Cassimatis, bocciata da Grillo, dopo essersi affermata alle Comunarie. Ma Genova appare un caso esemplare dell’equilibrio instabile che oggi caratterizza l’Italia.
La conferma viene da Palermo. Un osservatorio particolarmente significativo della personalizzazione, in ambito urbano e nazionale. Leoluca Orlando, infatti, è “nato”, politicamente, a Palermo. Negli anni Ottanta. Prima della stagione dei sindaci. Che ha, peraltro, interpretato, nel decennio successivo. Quando, tuttavia, ha svolto un ruolo significativo anche in ambito nazionale. In partiti-movimenti apertamente critici verso il sistema. Dalla Rete all’Italia dei Valori. Orlando: non ha mai rinunciato alla parte del Capo popolar- populista, che, soprattutto nel Mezzogiorno, è utile ad allargare i consensi. Proprio per questo, attrae e divide. Potrebbe passare subito, al primo turno. Ma, in caso di ballottaggio, rischia di subire l’aggregarsi del “voto contro”.
Naturalmente, molte altre e diverse sono le ragioni di interesse offerte dalle prossime amministrative. Ci sarà tempo per valutarne il significato. Per ora, mi limito a osservare che si tratterà, a mio avviso, di “elezioni critiche”. Perché potrebbero segnare il tramonto della stagione dei sindaci.
E, insieme, dei “partiti personali”, che ne sono gli eredi. Ma anche dei “non-partiti”, poco credibili di fronte alla prospettiva di governo, anche in ambito locale. E indeboliti dalla debolezza degli “antagonisti”: i partiti. Personali e impersonali. L’Italia dei Comuni, insomma, non si rassegna alla politica della non-politica.
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