Quando muore Ettore

Mattia Feltri
 

Era così vero, un dramma collettivo così popolare e teatrale, di un’autenticità così elementare che è diventato impossibile girarsi dall’altra parte. Non si era mai visto un addio al calcio simile, un intero stadio in lacrime, e al centro l’idolo, in lacrime anche lui, e tutti in lacrime davanti alla tv, a dimostrazione che il calcio non è una semplice pozione per gonzi, ma una faccia della vita: è un romanzo emotivo con poca finzione e quel tanto che resta dell’epica.

 È andata come nessuno aveva previsto. Francesco Totti ha rifiutato la divinizzazione che stava calando su di sé. Ha detto quello che nessuna divinità aveva detto prima: che sia maledetto il tempo, ho paura, ho bisogno di voi. Non era il campione, solo un uomo alle prese con questioni tanto umane, lo smarrimento per le stagioni della vita, l’irrecuperabile che rimane dietro e il buio davanti.

Ha tenuto un lungo discorso senza parlare di calcio, il calcio non c’entrava più e a rifletterci bene non c’era alternativa.

Nessuno era andato allo stadio a celebrare una collezione di trofei, perché di quelli ne ha vinti pochi, ma un ragazzo che è rimasto lì, per venticinque anni, a esercitare il suo sconfinato talento in una comunione spirituale con una squadra e una città. «Ho bisogno di voi». Che dispiacere per chi non capisce. Piangevano i bambini, gli adulti, i vecchi, ognuno piangeva sull’irrimediabile e sull’unica grande verità dello sport e delle nostre esistenze: vincere al massimo è un effetto collaterale. Quando perde Ettore, lo piange anche Achille.

LA STAMPA

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