Goodbye London: tra gli italiani d’Inghilterra che si preparano alla Brexit

dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI

LONDRA – Il flusso è notevolmente diminuito. La Brexit ha rallentato il numero di italiani che emigrano in Inghilterra. Fino al referendum di un anno fa che ha sancito l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, l’iniziativa del Consolato di Londra per offrire assistenza e informazioni ai nuovi immigrati provenienti dal nostro paese, denominata “L’approdo”, registrava una media di 60 persone a serata: ora ce ne sono sì e no mezza dozzina per volta. Incerti sulla possibilità di poter restare nel Regno Unito, i nostri connazionali, che siano aspiranti baristi, medici neo-laureati o giovani bocconiani, scelgono evidentemente altre mete per emigrare oppure rimangono in Italia. E anche fra gli italiani che a Londra abitano già, 330 mila ufficialmente registrati con residenza qui, mezzo milione in totale secondo la stima dei nostri diplomatici, vale a dire la più grande Little Italy al mondo, è cambiato qualcosa: c’è chi, scoraggiato, medita di tornare in patria e chi, pur determinato a restare, non prova più l’entusiasmo di prima per questo paese. “Londra era come il mio innamorato, la Brexit è stata come un tradimento”, dice Ornella Tarantola, direttrice dell’Italian Bookshop a Kensington, unica libreria italiana della metropoli. “Non manderò documenti, non muoverò un dito per ottenere permessi di residenza o cittadinanza”, avverte. “Se vorranno deportarmi, dovranno portarmi via in catene”.

Goodbye London: episodio 1 – Impara l’arte

Se non di fatto, perlomeno di pelle, la love story fra i nostri connazionali e la capitale britannica si è incrinata. Beninteso, non siamo gli unici a pensare che Londra, fuori dalla Ue, non sarà più la stessa. Le banche hanno già cominciato la fuga dalla City: la JP Morgan ha trasferito 400 dipendenti, la Goldman Sachs 1000, la Deutsche Bank 4 mila. Tra un quinto e un terzo di tutte le operazioni finanziarie condotte dalla cittadella della finanza londinese coinvolgono clienti con base in Europa: un’attività che dipende dai cosiddetti “passport rights”, il diritto delle società in uno stato europeo di condurre affari negli altri 27 stati, che con la Brexit verrebbe a cadere. Ci sono perciò previsioni che entro il marzo 2019, quando i negoziati sul “divorzio” tra Regno Unito e Bruxelles dovranno concludersi, almeno 30 mila banchieri, inclusi un certo numero di italiani, avranno lasciato Londra per Francoforte, Parigi o Dublino. “No more the global banker?”, non più il banchiere globale, si domanda il New York Times, riferendosi alla città sul Tamigi. Un altro articolo del grande quotidiano americano sullo stesso argomento, intitolato “London falling” (La caduta di Londra), ipotizzando un declino sotto molteplici aspetti provocato dalla Brexit, ha suscitato proteste e perfino indignazione fra gli inglesi. Il titolo era volutamente provocatorio. Sotto (e sopra) il Big Ben, ci sono 455 grattacieli in costruzione, per citare soltanto un dato di vitalità: non è che Londra sembri di colpo una città in crisi. Ma la reazione stizzita dei londinesi doc, esagerata per quello che in fondo era solo l’articolo di un giornale, rivela un nervo scoperto: una preoccupazione reale. “Londra città aperta”, continua a promettere Sadiq Khan, il suo sindaco musulmano e di origine pakistana, ma non ha lui il potere per farla rimanere tale, se Theresa May, ammesso che vinca le elezioni dell’8 giugno come prevedono i sondaggi (con meno sicurezza di un mese fa), premerà l’acceleratore sulla “hard Brexit”, il divorzio totale dal continente.

E’ venuto il momento anche per gli italiani di Londra, allora, di fare le valige e dire “Goodbye London”? Proprio così si chiama la mini serie web in 5 puntate che “Repubblica” ha realizzato per esplorare il tema. In realtà, non tutti vogliono andarsene. Fabio, romano, e Simone, milanese, il primo un “ex-ragazzo di strada”, il secondo con laurea alla Statale in risorse umane, si sono conosciuti a Chelsea guardando una partita di calcio dell’Italia. “Un giorno gli ho detto che, se avessimo vinto alla lotteria, sarebbe stato bello aprire un ristorante”, dice Simone. “E io gli ho proposto di provarci lo stesso, anche senza giocare alla lotteria”, completa la frase Fabio. Insieme hanno oggi Bacchus Lounge, un wine-bar ristorante che va per la maggiore a Fulham road. “Non abbiamo portato via il posto a nessuno, diamo lavoro a otto persone e pensiamo di ampliarci con un secondo locale”, raccontano. Però la Brexit dispiace anche a loro. In un negozio di parrucchieri a Camden Town, il quartiere punk, viceversa Giada ha nostalgia di casa e vorrebbe tornare a tagliare i capelli a Torino: “Ma da noi è più difficile trovare lavoro”, ammette; mentre l’abruzzese Gennaro si ripropone di restare un altro po’ solo per accumulare esperienza e diventare “il barbiere più bravo di tutti”. Da Mark Ramson, art gallery di Pimlico alle spalle di Sloane Square, la parmigiana Federica, entrata nella prestigiosa galleria d’arte come stagista e diventata rapidamente direttrice, fa suo il proverbio “impara l’arte”, per poi praticarla altrove: New York, Singapore, Milano, non ha ancora deciso. “Forse dovrei restare a Londra fino a quando non avrò preso la cittadinanza britannica, per poter eventualmente tornare a lavorare qui”, si interroga. Mentre Paolo, cameriere nel suo Lazio natio e poi da un locale all’altro a Londra, prende la Brexit come uno stimolo ad andarsene a fare quello che più gli piace, l’istruttore di sub, “al caldo, in Spagna, da qualche parte dove la vita costa meno, il ritmo è meno intenso e la gente ha più tempo da dedicarti”. Sono soltanto un campione delle mille storie italiane di Londra: un segnale che la Gran Bretagna, andandosene dall’Europa, rischia di perdere gli europei che hanno contribuito a farne la capitale globale per eccellenza. O perlomeno di non essere più amata come prima: difficile riconquistare un “innamorato tradito”, per dirla con la libraia Ornella.

REP.IT

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