Il regno del bene
È sempre con apprensione che ci si accosta alla figura inflessibile di Piercamillo Davigo. L’apprensione si acuisce se tocca farlo al termine di un convegno sulla giustizia, di cui Davigo è stato pietra angolare, organizzato a Montecitorio dal Movimento cinque stelle. Sarà che quell’urlo di quattro anni fa («siete circondati, arrendetevi») continua a rimbombare, e sembra avvicinarsi. E però, col dovuto rispetto e il giusto timore reverenziale, fra i tanti assiomi pronunciati ieri da Davigo, uno colpisce in particolare: «Io non mi occupo di politica, mi occupo di politici quando rubano». Che poi è una frase persino ovvia.
Un magistrato fa il magistrato, non fa il politico, e si occupa di chi ruba. Il problema è che ha richiamato alla memoria un passaggio di Massa e potere, possente saggio di Elias Canetti. Ora, è chiaro che citare Elias Canetti in una rubrica di prima pagina è contro ogni regola dell’intrattenimento, ma Massa e potere è un libro del 1960 che, come ogni capolavoro, parla di oggi.
Ai cinque stelle farebbe bene conoscerlo, anche in una versione riassunta (magari si offre il professore Giovanni Orsina, canettiano ed editorialista della Stampa). In un passaggio, Canetti scrive: «Solo apparentemente il giudice sta sul confine che separa il bene dal male. In ogni caso egli si annovera fra i buoni. La legittimazione del suo ufficio si fonda sul fatto che egli appartiene inalterabilmente al regno del bene, come se vi fosse nato. Egli sentenzia in continuazione». Ma questo è Canetti, eh. In caso di querela, rivolgersi a lui.
LA STAMPA