Più potere al Pentagono e altri 5mila soldati. Trump prepara l’offensiva in Afghanistan

paolo mastrolilli

Nei corridoi della Casa Bianca la chiamano già la «McMaster’s War», cioè la guerra del consigliere per la Sicurezza nazionale, che l’ha pensata e la promuove. Si tratta della «surge» (rinforzi) di uomini e mezzi che il presidente Trump sta valutando di lanciare in Afghanistan, facendo i conti ora anche con la violenza all’origine dell’attentato di ieri a Kabul.

 La guerra nel Paese dove erano stati organizzati gli attacchi dell’11 settembre 2001 dura ormai da 16 anni, ed è costata la vita a circa 2400 soldati americani, 1100 alleati Nato, e oltre 170.000 militari e civili locali. L’intervento internazionale aveva raggiunto il picco massimo nel 2012, quando 130.000 uomini Usa e dell’Alleanza Atlantica combattevano contro i taleban, per sconfiggerli e costringerli a fare un accordo di pace col governo guidato da Karzai. Obama aveva progressivamente ridotto questo impegno, pensando che gli insorti fossero ormai sfiniti, con l’obiettivo di lasciare solo mille americani sul terreno prima della fine del suo mandato. Perciò aveva limitato l’autonomia del Pentagono a colpire i leader taleban, arrivando a sostenere che non dovevano più essere considerati nemici. L’accordo però non era mai stato siglato, e Obama si era dovuto rassegnare a far risalire a oltre 8000 i militari presenti nel Paese.

 

«Resolute Support»

La missione in corso si chiama «Resolute Support» e ha lo scopo di addestrare e sostenere le circa 350.000 truppe locali, ma sul terreno ci sono anche oltre 2000 uomini delle forze speciali che conducono operazioni antiterrorismo. I taleban controllano il 40% del territorio nazionale, e la situazione sul terreno si è complicata anche per l’infiltrazione dell’Isis. Proprio contro i militanti del Califfato, infatti, nello scorso aprile il Pentagono aveva sganciato la GBU-43, la «madre di tutte le bombe», per distruggere le caverne dove si nascondevano nella provincia nord orientale di Nangahar.

 

Sul piano politico, però, la situazione è forse ancora più complicata che su quello militare. Il comandante americano in Afghanistan, John Nicholson, ha denunciato nelle settimane scorse che i russi stanno armando i taleban, e gli stessi sciiti iraniani stanno approfittando del caos per aiutare gli insorti sunniti, perché l’interesse di Teheran a osteggiare Washington è più forte persino della storica avversione verso i rivali settari.

 

Pronti i rinforzi

In questo quadro, McMaster ha ideato con il capo del Pentagono Mattis un piano che sta sul tavolo di Trump, e aspetta la sua decisione finale. La nuova «surge» prevederebbe di inviare tra 3000 e 5000 uomini in più, chiedendo poi agli alleati della Nato, inclusa l’Italia, di mantenere o rafforzare la loro presenza in Afghanistan. L’autorità per decidere i raid aerei contro la leadership dei taleban passerebbe dalla Casa Bianca ai militari, che hanno già cominciato ad accelerare le operazioni, come ha dimostrato l’uso della GBU-43. Lo scopo non sarebbe tornare a combattere come ai tempi dell’Isaf, ma rimettere sulla difensiva gli insorti per costringerli a trattare col governo di Ghani.

 

Il presidente, però, non ha ancora dato il via libera definitivo. Il Pentagono si aspettava di riceverlo prima del vertice Nato del 25 maggio a Bruxelles, in modo da cominciare a chiedere contributi concreti agli alleati in quella sede, ma ciò non è avvenuto.

 

Durante la campagna elettorale Trump aveva criticato le guerre in Medio Oriente della presidenza Bush, e aveva detto che gli Usa non possono fare il poliziotto del mondo. Il costo delle operazioni in Afghanistan poi, 23 miliardi di dollari all’anno, è un altro deterrente. L’attentato di ieri, però, ha dimostrato che il tempo stringe. I taleban sostengono che non sono stati loro a colpire, ma se questo fosse vero, vorrebbe dire che l’infiltrazione dell’Isis e di altre forze terroristiche è ormai così avanzata, da non lasciare più molto spazio a Trump per riflettere sulla «McMaster’s war».

LA STAMPA

 

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