In coda al voto balneare sul Grande Raccordo Elettorale
Tommaso Cerno
Pane al pane. Le cose vere vanno dette. E una cosa, una che sia tedesca, questa riforma elettorale ce l’ha: la probabile data del voto, settembre, massimo ottobre, come i cugini d’Alemagna. Checché se ne dica, questa appare ad oggi l’unica ragione filologica per cui è stata scelta questa norma. A dirla tutta, ce ne avrebbe pure una seconda di cosa tedesca: il nome. E come dicevano i latini “Nomina sunt consequentia rerum”, che per gli appassionati del Google traduttore significa: “I nomi sono conseguenti alle cose”. La norma tedesca, insomma, si chiama così per conseguenza di un fatto italiano: visto che la nostra classe politica è quello che è, tanto vale fare di necessità virtù. E raffazzonare con un bel nome pomposo, aulico, un nome d’arte, quella che nei fatti è un banalissimo proporzionale. In perfetto disaccordo con il referendum Segni, con il Mattarellum che ne seguì, con le ragioni profonde dell’Italicum decapitato dalla Consulta, con la vocazione maggioritaria del Pd, con la promessa di governi stabili e certi, con la rottamabilità del trasformismo ecc. ecc. Se la chiami “modello tedesco” suona bene. Peccato solo che Angela Merkel e compagni di Germania, se si fossero presentati al Paese al termine di una legislatura come questa è stata, caos, e perfino senza rispettare l’unica, ultima promessa rimasta in piedi, quella di portare il Parlamento a scadenza naturale, tanto ormai bastava passare l’estate, avessero fatto un blitz del genere mandando avanti il Dottore, Silvio Berlusconi, proprio in questi giorni in onda nella nuova serie “1993” alle prese con il suo esordio politico talmente antico da essere diventato una fiction, beh i tedeschi veri avrebbero risposto: Nein! Ma noi tedeschi non siamo e non sarà questa legge elettorale a renderci tali. Martin Lutero fece la riforma. Per noi questa è la controriforma.
Ne abbiamo lette tante su quanto sta accadendo. Ma la cosa che colpisce uno come me, da sempre a favore delle urne come arma per ridare al Parlamento legittimità, fin dal 2011 quando il governo Monti non l’avrei mai voluto vedere, è prendere atto che potevamo andare a votare in molti momenti: dopo la sconfitta di Bersani nel 2013, dopo la caduta di Letta nel 2014, perfino dopo il referendum perso da Renzi nel 2016. Avrebbe avuto senso. Se c’è una data che un senso, per dirla con Vasco, non ce l’ha è invece questa. L’ultimo rantolo del governo Gentiloni. Data che mostra agli italiani che in cinque anni non si è fatta una legge («non è una priorità, il paese ha fame»), poi in cinque giorni, puff, tutto è possibile. Addirittura diventare la Germania e ripartire da un Montecitorio in forma di Bundestag di sabbia. Così come è stato disegnato sulla nostra copertina. Nel pieno di quella che sarà la campagna elettorale balneare più ignorata e dileggiata della storia recente, con i cittadini in cerca di frescura verso il mare in coda sul Grande Raccordo Elettorale.
Ma c’è la democrazia, signori miei, che tutto puote. E stavolta i partiti parlano di intesa. Tutti tranne uno: il non partito di Alfano. Il partito mai partito. La nuova destra che destra non è e che sinistra non può diventare. Talmente satollo di stare in piedi solo perché gli altri stiano in piedi con lui, che non si capacita. Perché teme che anche con una norma che recupera il miglior perdente (da scrivere in tedesco per vedere, come cantava Jannacci, l’effetto che fa… a un tedesco vero) rischia di non arrivare primo nemmeno come perdente.
A questo punto potremmo aprire il capitolo sulle riforme mancate. Sulle leggi ferme da anni che altri anni ferme staranno. L’hanno scritto fior di giornali e signore firme. Concordiamo e aggiungiamo: fate attenzione, onorevoli colleghi, perché il modello tedesco rischia di creare un caso Francia. Votare in fretta, uscirne senza maggioranza politica ma solo poltronistica (in aula l’accordo si fa, ma nel Paese reale no) porterebbe a un rapido bis: l’Italia al ri-voto. Con i partiti delegittimati e un Macron che a furor di popolo dice: basta. Kaputt.
L’ESPRESSO