Cerotti, ghiaccio e carezze. La solidarietà della città che ha spalancato le porte
Le mani insanguinate battono sui portoni di legno, i pugni picchiano sui campanelli, le guance si schiacciano contro le vetrine dei bar e dei ristoranti; le urla raggiungono i camerieri e i clienti seduti all’interno, le implorazione di aiuto irrompono ovattate da dietro il vetro all’ora del dessert ma il significato si intuisce: «Fateci entrare, ci stanno sparando», «È un attentato, siamo in pericolo, per favore…». Da questo momento è uno «sliding doors»: porte che si aprono (la maggioranza), o che restano chiuse. Altre che vengono sfondate: è successo in piazza San Carlo 206, ad esempio – proprio di fronte alla transenna del parking sotterraneo sfondata – dove ieri, nel day after, la custode si domandava ancora: «Come ci sono riusciti? Il portone è così grande e pesante». La risposta si chiama «panico», la gente terrorizzata attinge a forze che non sa di avere. E si riconosce. «Ho capito subito che quei ragazzi avevano paura, dagli occhi, dall’aspetto»: Silvia Zanin, in «curriculum» già diversi soccorsi («Una volta in un bruttissimo incidente stradale») non ha avuto dubbi l’altra sera quando, di rientro dalla passeggiata con il cane, ha invitato un gruppo in fuga a entrare nel palazzo di via Gramsci 9, dove abita. «Non seguivo la partita, ho visto soltanto quei tifosi correre, all’improvviso, in strada, un muro umano che mi veniva incontro, impressionante, muoveva l’aria: poteva esser accaduto solo qualcosa di spaventoso, sono rimasta fredda, in genere ci riesco, e ho chiesto a quelle persone se volevano salire». Loro sono rimaste nell’androne, al sicuro, consolate da quella possibilità.
La corsa dentro le case
I palazzi, nella notte del terrore, diventano rifugi dove gestire l’angoscia, riprendere fiato, trovare conforto: «Ho aiutato una famiglia, padre madre e un bimbo di tre anni, avevano raggiunto il mio pianerottolo di corsa – racconta Stefania Povero, sull’uscio di un appartamento in una traversa di via Roma -: la mamma in particolare era sotto choc, le ho dato acqua, l’ho fatta calmare. Qui, nel cortile e nelle scale, c’erano tantissimi tifosi, sono rimasti per tre quarti d’ora». Si tratta delle residenze della Torino bene, il «salotto della città», edifici storici, i soffitti stuccati, i capitelli ai balconi, pavimenti di marmo, ospitano banche, studi di commercialisti, sedi di multinazionali. Molti, per privacy, hanno i citofoni senza cognomi, ma con i codici: provare a suonare è inutile. E poi c’è il fattore sorpresa: chi non è in piazza, ma sta a casa, non sa cosa succede, quella folla che farnetica sotto choc e cerca di confluire strillando dentro gli alloggi di ignari torinesi o i locali di distratti commensali, in qualcuno innesca un sentimento di difesa.
L’assalto ai locali pubblici
«Ci siamo spaventati» ammette Dori Marcu, responsabile del Mokita in piazza San Carlo. Il bar era già chiuso, dalle 20 ma lo staff stava ancora dentro: «Sono piombati qui, in massa, abbiamo aperto un attimo, ma è stato il caos: la gente si è infilata ovunque, nel piano di sotto, sul retro, dicevano che era scoppiata una bomba, che qualcuno sparava, che c’era appena stato un attentato, non si capiva più nulla: chiedevano aiuto, abbiamo cercato di dare acqua a tutti, soprattutto ai più gravi, a chi ha perso i sensi. Ho visto anche una mamma con il passeggino cadere». Sulle vetrine ci sono ancora le strisce di sangue.
Il cuore dei torinesi
Torino ha capito. E, come ha potuto, ha sporto una mano. Paola Grattapaglia, responsabile del Signor Vino, un ristorante-enoteca di via Lagrange, ha accolto decine di ragazzi, il giorno dopo la città racconta che sia stata tra le più generose: «Eppure mi è spiaciuto non riuscire a far ragionare tutti, volevo soltanto evitare che si facessero male sicché cercavo di farli entrare un po’ per volta: c’erano tanti stranieri, giovani spagnole, coppie, fratelli». Uno tsunami che ha travolto il dehors e la ragione: «Si sono fiondati in due riprese, la prima volta ho temuto che soffocassero tra le porte, gridavano frasi sconclusionate, erano in evidente stato di panico». Raggiungono anche le cucine: «Dicevano ai cuochi che qualcuno voleva ucciderli, di aver visto agitare le armi». Basta una cassetta di primo soccorso per le medicazioni: «Abbiamo dato ghiaccio e acqua ossigenata ai feriti, una donna aveva un piede insanguinato, un’altra piangeva perchè aveva perso le medicine, c’era uno con il setto nasale rotto, perdeva sangue, altri scalzi, abbiamo dissetato tutti».
Mette subito in pratica i primi insegnamenti invece Giulia Ragno, 20 anni, studentessa di Medicina che abita in una piccola traversa di via Po: dà fazzoletti e cerotti per pulirsi via il sangue ai cinque amici arrivati nel suo appartamento dopo una serie di porte in faccia: «Erano tutti soli, tranne una coppia di Como, avevano perso gli amici, le scarpe, gli zaini, una ragazza piangeva. “Grazie, grazie, grazie”, non smettevano di ripetermelo. Dicevano che dalla piazza a qua nessuno aveva aperto». Poi, il loro «sliding doors» in questa notte a maledire citofoni, li ha portati a incontrare Giulia che ha aperto subito, senza nemmeno bisogno di suonare.
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