Il terrorista allevato a casa nostra
La notizia che Youssef Zaghba, uno dei tre attentatori di Londra, abbia forti legami con il nostro Paese preoccupa. Non è particolarmente eclatante che sia spesso transitato nel Bolognese, dove le sue visite pare fossero motivate dalla presenza della madre.
Difficile al momento stabilire se la giustizia avrebbe potuto fare di più e detenerlo, ma è importante che le autorità italiane lo abbiano schedato come pericoloso e abbiano condiviso l’informazione coi partner europei – lo scambio di informazioni operative in tempo reale è basilare nel confronto della minaccia terroristica attuale.
Non è il primo jihadista a transitare sul nostro territorio. Anis Amri, l’attentatore del mercatino di Berlino, aveva iniziato il suo percorso di radicalizzazione nelle carceri siciliane e dopo la strage era tornato nel nostro Paese, venendo ucciso a Sesto San Giovanni.
L’attentatore di Nizza era venuto spesso in Italia, facendo proselitismo tra i rifugiati di Ventimiglia. E altri attentatori erano approdati nella Penisola come prima tappa del loro viaggio dalla Siria ai Paesi europei che poi hanno colpito. Ma non sembra che ci sia un filo conduttore tra queste storie, non è un trend, sono storie isolate. Per quanto anche da noi operino soggetti con legami operativi con lo Stato Islamico non risulta infatti esserci una rete di supporto che fa passare da noi jihadisti in arrivo da o in partenza verso i territori del Califfato. L’idea dell’Italia come comodo Paese di passaggio (e secondo alcuni per questo non attaccata dai terroristi) è fallace e non basata sulla conoscenza dei trend attuali del jihadismo globale.
Quello che invece preoccupa del caso Zaghba è il fatto che il ventiduenne è il secondo cittadino italiano di seconda generazione (con padre nordafricano e madre italiana) ad essersi macchiato di un atto di violenza jihadista nell’arco di tre settimane. Il 18 maggio, infatti, Ismail Tommaso Hosni, padre tunisino e madre pugliese, aveva accoltellato agenti di polizia e militari in servizio alla Stazione Centrale di Milano. Un atto le cui motivazioni non sono chiarissime, ma certe sono le simpatie jihadiste dell’Hosni. Siamo di fronte a un nuovo trend? Uno dei principali motivi per cui l’Italia è stata finora solo marginalmente toccata dall’ondata di violenza jihadista che ha insanguinato l’Europa è il fatto che non ha un numero importante di «seconde generazioni». E’ proprio questa la fascia che nei Paesi del Centro-Nord Europa si è dimostrata la più suscettibile alla radicalizzazione, i figli arrabbiati di genitori musulmani immigrati o di coppie miste che combattono con problemi di identità, che non si sentono a loro agio né con l’islam dei genitori né con la vita nelle nostre società laiche, che trovano nel jihadismo una risposta forte alle loro mille domande, insicurezze e frustrazioni.
In Italia si erano già visti alcuni casi di «seconde generazioni» radicalizzate, ma nulla in confronto a Francia, Germania o Inghilterra. I casi Zaghba e Hosni sono due campanelli d’allarme sotto due punti di vista. In primis, anche se è presto dirlo, potrebbero essere solo le prime indicazioni che il fenomeno delle seconde generazioni radicalizzate è arrivato anche da noi. E al tempo stesso pongono l’antiterrorismo italiana davanti a una problematica nuova. Fino ad oggi le espulsioni di soggetti radicalizzati sono state uno degli strumenti principali nel contrasto al terrorismo (49 effettuate dall’inizio dell’anno). Ma questo efficacissimo strumento, che rimuove dal suolo nazionale soggetti chiaramente radicalizzati prima che possano passare all’azione, non può essere applicato a uno Zaghba, a un Hosni o ad altri che hanno passaporto e cittadinanza italiana. Anche se Zaghba e Hosni fossero due eccezioni (ma è più probabile che no lo siano) occorre pensare a come affrontare casi di cittadini radicalizzati, la stessa problematica che ha messo in crisi l’antiterrorismo di tutta Europa.
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