Il deficit non visto dai partiti

Angela Merkel e Theresa May

Oggi gli inglesi andranno a votare, tre anni prima della scadenza prevista, con un sistema elettorale che risale al Settecento. Nella notte sapremo chi ha vinto. O forse no, se Theresa May ha sbagliato i suoi calcoli. Le elezioni democratiche sono incerte per definizione. Domenica quarantasette milioni di francesi andranno a votare con un sistema elettorale che hanno sperimentato per la prima volta nel 1857,e che usano da mezzo secolo. Si apprestano a dare la maggioranza a un partito mai entrato prima in Parlamento, né di destra né di sinistra, pur di assicurare la governabilità a Macron.

Il 24 settembre sessanta milioni di tedeschi andranno a votare con un sistema elettorale che funziona dal dopoguerra e, anche se non sanno ancora quale, sono certi che un governo ci sarà, perché male che vada si rifarà la grande coalizione.

Quando si giudica la stabilità di un Paese, il sistema elettorale, il suo radicamento nella tradizione, la sua affidabilità, la sua imparzialità, contano eccome. Gli elettori imparano a suonarlo come uno strumento per ottenere le note che vogliono, perfino quando sembra che stonino. L’Italia è giudicata politicamente instabile anche perché al momento non dispone di questo bene primario della democrazia. Chi ha criticato il modo in cui Berlusconi nel 2005 e Renzi nel 2016 imposero a colpi di maggioranza e di fiducia l’uno il Porcellum e l’altro l’Italicum, non può oggi sottovalutare l’importanza che avrebbe il varo di una legge elettorale condivisa da quasi l’80% del Parlamento.

L’ampio consenso non è infatti solo una questione formale: garantirebbe anche che al prossimo giro della ruota della fortuna non si cambi di nuovo (è la terza legge in 12 anni); eviterebbe che metà del Paese la rifiuti come un sistema truffaldino per favorire gli avversari; e diminuirebbe il rischio di forzature costituzionali e di nuove bocciature. Prima di giocare alle elezioni anticipate, materia che non rientra nelle loro prerogative, i quattro partiti firmatari dell’accordo dovrebbero dunque innanzitutto dimostrare di essere capaci di raggiungere questo risultato. Ieri non si è certo cominciato bene alla Camera: franchi tiratori a frotte, decine e decine (è già tornata la carica dei 101 nel Pd?), mentre Grillo cammina sui carboni ardenti e annuncia nuovi referendum degli iscritti, che equivalgono a garantirsi un diritto di recesso finale se la base non tiene (uno vale uno, ma il voto dei grillini vale più degli altri perché ha un potere di veto).

La legge in discussione non è certo perfetta, contiene anzi alcuni punti discutibili, soprattutto un numero molto alto di nominati, e altri ancora se ne potrebbero aggiungere nelle cento votazioni segrete richieste. Poiché è di impianto proporzionale, non piace ai fautori della stagione del bipolarismo, inauguratasi nel 1994 ma di fatto già finita nel 2013, quando dal nulla comparve un terzo polo a Cinque Stelle. Non garantisce prima del voto una maggioranza di governo, che molto probabilmente dovrà essere di coalizione. Però l’accusa secondo la quale ci riporterà alla Prima repubblica sembra eccessiva. Si sottovalutano due cose. La prima è lo sbarramento al 5%. Con quell’asticella potrebbero entrare in Parlamento non più di quattro o cinque partiti. Basti pensare che. nella Prima repubblica cinque partiti bastavano a stento per formare un governo.

Il secondo punto da considerare è che le leggi elettorali cambiano il comportamento degli elettori, non si limitano a fotografarlo. La governabilità, che abbiamo a lungo cercato in soluzioni tecniche, dipenderà in realtà dagli italiani. Se non faranno entrare in parlamento i tre gruppi che danzano intorno al 5% vorrà dire che avranno deciso di distribuire ai partiti maggiori un premio di maggioranza del 15%, esattamente quanto l’Italicum assegnava al solo partito vincitore, portandolo dal 40% dei voti al 55% dei seggi. Altrimenti vorrà dire che hanno consapevolmente scelto mediazioni e compromessi più complessi. D’altra parte Pd e Cinque Stelle si presenteranno al voto con un impianto bipolare, entrambi con un candidato premier e un programma di governo. Non si può escludere che gli italiani accettino questa polarizzazione: convergere su Renzi per fermare Grillo, o viceversa.

È dunque nella scelta degli elettori che si annida l’incertezza che preoccupa i mercati, esattamente come avvenne per le presidenziali francesi e il referendum sulla Brexit. Ciò che si teme non è tanto il voto in sé, ma l’esito. Alle forze politiche si deve dunque chiedere di dimostrare da oggi nei fatti che non stanno facendo una legge elettorale per correre alle elezioni e incassare quanti più parlamentari si può, ma perché senza di quella legge la democrazia italiana è più debole e più esposta. Da qui alla fine dell’anno nascerà una nuova Europa, forgiata dai nuovi governi di Francia e Germania. Sarebbe davvero un peccato restarne fuori per i nostri deficit democratico e di bilancio, proprio ora che il resto del Continente ha ripreso a crescere e qualcuno si azzarda già a intravedere l’alba di un «decennio dorato» per l’Europa, dopo tanto soffrire.

CORRIERE.IT

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