Le regole di Airbnb e le grandi responsabilità delle piattaforme. Intervista a Chris Lehane
Airbnb vuole rispettare le regole in ogni parte del mondo, vuole fare accordi, far crescere le comunità e dialogare, ma il capo delle policy globali del campione della sharing economy non è disposto ad assecondare i decisori di città o Stati grandi e piccoli. «Le piattaforme tecnologiche arrivano prima e superano i governi. Hanno grandi responsabilità, è vero. Ma molti politici non capiscono di cosa parlano», dice Chris Lehane, 50 anni, americano con tre nonni di origini italiane, prima alla Casa Bianca con Bill Clinton, poi portavoce di Al Gore, potente lobbista da Washington alla California, infine capo delle policy di Airbnb.
Parla velocissimo, a volte finisce la frase prima che sia conclusa perché gli viene in mente un’altra idea, non nasconde il giudizio negativo su Donald Trump e scherza quando si accorge che nella libreria alle sue spalle c’è un libro su Niccolò Machiavelli.
Lehane è in Italia, il terzo mercato per la piattaforma, per incontrare gli host e per annunciare un patto sulla tassa di soggiorno a Genova. Ma deve soprattutto mettere in mostra la sua capacità di tessere un accordo, trovare un compromesso con Roma dopo che il Parlamento ha obbligato, con la Manovra, le piattaforme a incassare la cedolare secca a nome del fisco. Una misura, dice Lehane, «non praticabile», da cui però partire per trovare un nuovo accordo. «Oggi abbiamo circa 300 patti con le città in giro per il mondo e 50 sono state chiuse nel primo trimestre del 2017. Filosoficamente noi crediamo che sia giusto avere delle regole e rispettarle, vogliamo solo essere sicuri che le regole siano adatte a questa era. Le prime cinque aziende del mondo sono compagnie tecnologiche – continua Lehane – noi non siamo ancora tra i primi cinque ma stiamo crescendo, sono piattaforme, globali, e hanno enormi responsabilità. Per alcuni versi queste aziende hanno perfino superato i governi: questo crea una frizione nella nostra società. Dobbiamo cercare di condurre un dialogo e fare ordine».
La Silicon Valley vuole rispettare le regole? Questa è una novità. Molte startup all’inizio non si preoccupavano affatto di infrangerle. Qualcosa sta cambiando?
«I tre fondatori di Airbnb sono tutti millennials: hanno sempre voluto fare la cosa giusta per le città ma non erano esperti di politiche pubbliche. Nel tempo hanno imparato che voler lavorare con le città non significhi saperlo fare. E poi partivano dal fatto che la piattaforma era decisamente più avanti rispetto all’innovazione delle città stesse».
Perché ha scelto di lavorare per Airbnb?
«Per tre ragioni: la prima è che è coerente ai miei valori. Sono sempre stato attento ai problemi della classe media, e dopo il 2008, la crisi finanziaria, non penso che Airbnb sia la soluzione a tutti i problemi ma penso sia parte della soluzione. Poi sono stato davvero impressionato dalla volontà dei fondatori di lavorare con le città. Ho lavorato con tante aziende ma non c’era necessariamente la ferma sensazione che fosse così importante “fare la cosa giusta”. Oggi la tecnologia arriva prima dei governi: questo crea delle grandi sfide sul fronte delle disuguaglianze economiche, sulla fiducia che abbiamo nella società, e dunque sulla capacità della democrazia di operare e avere successo. La Costituzione americana si basa sulla classe media: senza la fiducia della classe media la democrazia non può funzionare».
È ciò che è accaduto in novembre con la vittoria di Trump?
«Esatto: è l’effetto secondario del fatto che le persone avevano perso la fiducia. I sintomi suggeriscono che le democrazie liberali stanno male la classe media sente che così non funziona. Il settore tech ha una responsabilità: ha migliorato le nostre vite, ma dai robot all’intelligenza artificiale c’è un impatto sulla stagnazione dei salari e sulla disoccupazione».
Prima ancora dell’intelligenza artificiale, pensa che Trump capisca la sharing economy e Airbnb?
«In realtà Trump non ha parlato molto di noi, ovviamente ha qualche consapevolezza. Ma sicuramente c’è qualcuno nella sua amministrazione che capisce il modello».
Quale è la sfida più grande del suo lavoro oggi?
«La consapevolezza della classe politica e dei legislatori. Airbnb è nata solo nel 2008. Molti non capiscono proprio di cosa parlano. Se guardiamo alla legge passata in Italia sul sostituto d’imposta, è semplicemente non praticabile. Fare un accordo può essere semplice, in teoria, mentre si è fatto un sistema che favorisce Golia e non Davide, le grandi aziende e non i piccoli. Non penso che quell’emendamento sia passato pensando di fare qualcosa di male, semplicemente non hanno capito come funziona».
Cosa succederà ora?
«Ora dobbiamo aspettare i regolamenti che spieghino come questo sistema dovrebbe funzionare. Penso che se il governo avesse la volontà di dare un occhio a ciò che abbiamo già fatto all’estero, potremmo uscirne con un ottimo accordo, positivo per il Paese. Speriamo in uno sguardo costruttivo, perché così non può funzionare».
Teme che queste misure possano rallentare la vostra attività?
«No. il servizio cresce sempre di più, abbiamo 130 mila host, generiamo attività economica per oltre 4 miliardi di euro, il 43% della crescita avviene nelle zone rurali del Paese, il Sud e la Sicilia sono le aree che crescono di più. L’effetto rete funziona: se il governo prova a imporre qualcosa che non è coerente con la realtà, le persone vanno avanti, nonostante tutto. Ma questa situazione crea confusione e potenzialmente danneggia il brand Italia nel mondo. Tutti dicono di voler attrarre turismo nel Sud e nelle zone rurali, di volere turismo di qualità, ma nessuno lo fa più di Airbnb».
Sentite la mancanza di una leadership nel governo?
«Sappiamo che l’Italia ha ovviamente altri temi molto importanti da affrontare, ma pensiamo che parlare di questo accordo sarebbe davvero positivo per il Paese. Non so quanti possano andare dal governo italiano e dire: vogliamo far funzionare questa cosa e portarvi più soldi».
Nel testo approvato c’è anche la questione della stabile organizzazione fiscale.
«Ma il nostro modello è diverso, noi abbiamo 130 mila persone che usano la loro casa, sono fisicamente qui, in Italia, e il 97% dei ricavi va agli host: i soldi rimangono in Italia».
Da Venezia a Barcellona si parla di quote e tornelli per limitare i troppi turisti. Può funzionare?
«Io capisco pienamente i veneziani: la gente ci va per un giorno, gira, porta cibo da fuori, pesa sulle infrastrutture locali e la città non vede alcun beneficio. Ci sono dei posti, come i parchi naturali delle Galapagos, dove c’è un limite sulle persone che possono essere ospitate e un limite minimo di notti. Bisogna trovare una soluzione creativa».
Le manca Washington?
«Sono un democratico perché credo nel ruolo del governo nel migliorare la vita delle persone. Ma da anni c’è una grande paralisi: non dico che Washington non abbia un ruolo nella vita delle persone, basta pensare all’addio ai patti di Parigi sul clima. Ma le grandi idee e i cambiamenti sono guidati dalle piattaforme tecnologiche, non dal governo. Ho pensato che avrei avuto più impatto qui, ora. Sono sicuro che non sia la mia ultima volta… [nella politica attiva, ndr].
Non dirò i nomi, ma recentemente ho avuto un incontro con un gruppo di politici importanti e la scarsa conoscenza di come funzioni la tecnologia è stata davvero sorprendente. Allo stesso modo se parli con dei leader del tech non hanno alcuna conoscenza del governo».
Pensa che un prossimo candidato alla presidenza potrebbe emergere dal mondo tech?
«Se guardi alla storia degli Stati Uniti, spesso nei periodi di transizione emerge qualche leader da un background inaspettato. Dal 1860 quando emerse Abraham Lincoln, al dopo Watergate con Jimmy Carter, a Barack Obama, da senatore a presidente in sei anni, c’è uno schema che si ripete. Oggi negli Stati Uniti si parla di cinque-dieci nomi, ma è probabile che sia invece qualcuno di cui non stiamo parlando ora».
Conosce bene l’Italia. Cosa pensa del Paese e del suo futuro?
«Penso che l’Italia non sia in una posizione così diversa da altri in questo momento. Nei prossimi tre-quattro anni vedremo alcuni Paesi che emergeranno perché dalle sfide nascono opportunità, e saranno in grado di accelerare.
Martedì era l’anniversario del D-Day: dal momento in cui i soldati americani hanno toccato il suolo francese in Normandia nel 1944, il mondo è stato organizzato su politiche pensate in America. Per decenni gli Stati Uniti dicevano qualcosa e tutti gli altri rispondevano, chi contro, chi a favore. Ora potrebbe non essere più così, è un fatto oggettivo. Trump ha vinto anche su questo tema, è un derivato di questo effetto. Quindi ci troveremo di fronte a una nuova apertura, e allora qualcuno saprà afferrare il momento. Qualcuno no».
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