Elezioni in Gran Bretagna: Disfatta May, non è la Thatcher

Theresa May ha perso la sua scommessa. Aveva chiesto un’ampia maggioranza e un mandato pieno per trattare una Brexit dura, a spese dei lavoratori europei del suo Paese; non l’ha avuta. L’esito del referendum sulla Brexit non può cambiare; ma la politica britannica si è messa in moto. Ci sono Paesi di antica democrazia, che conoscono l’alternanza, ma hanno comunque un partito fondativo: il perno attorno a cui gira il sistema, almeno fino a quando il sistema non entra in crisi. In Israele sono i laburisti; che però hanno perso centralità dai tempi dell’assassinio di Rabin e dal successivo fallimento di Barak. In Francia sono i neogollisti; che però dopo le presidenziali si preparano a perdere pure le legislative, da cui potrebbe venire per Macron un ampio mandato a governare. Il partito-sistema del Regno Unito, i conservatori, ieri ha tenuto, pur indebolendosi. Ma il suo leader ha commesso lo stesso drammatico errore di Chirac, quando nel 1997 dissolse l’Assemblea Nazionale e perse le elezioni. La May non ha più la maggioranza assoluta.

Il suo predecessore David Cameron si era giocato tutto con lo sciagurato azzardo del referendum sull’Europa; lei ha sciolto il Parlamento con tre anni di anticipo, rischiando in modo scriteriato di consegnarlo a una versione del partito laburista radicalizzata e incompatibile con i tempi. La rimonta di Corbyn si è interrotta, ma questo probabilmente non basterà a salvare la poltrona della May. Ora i conservatori dovranno cercare un accordo ai Comuni (e forse un altro primo ministro); oppure prepararsi a tornare alle urne. Di sicuro, la May non è la Thatcher; e lo si è visto. Tiepida avversaria della Brexit, si è trasformata al governo nella sua più accanita sostenitrice. Anche il giro di vite contro il terrorismo è suonato come una grida manzoniana — severa ma impotente — più che come una svolta, se invocata dalla donna che è stata per sei anni ministro degli Interni. In campagna elettorale è stata un mezzo disastro: freddina, querula, apodittica nei suoi slogan: «Brexit is Brexit», «enough is enough». Molti inglesi ne avevano davvero abbastanza di lei e di sette anni di governo conservatore; e forse avrebbero anche votato per l’alternativa laburista, se fosse stata credibile. Ma non lo era, almeno per i moderati e i centristi. Jeremy Corbin si è battuto meglio del previsto. Ha recuperato rispetto ai sondaggi iniziali. Forse non merita di essere etichettato come uno dei tanti populisti nemici della modernità, della scienza, del libero mercato. Però il suo sogno del ritorno al Labour delle origini, cancellando il decennio blairiano, è apparso impossibile, anche perché troppo costoso per i contribuenti. Le sue istanze di riforma sociale hanno convinto i giovani, gli esclusi, ampie quote dell’elettorato metropolitano.La sua sostanziale ambiguità sulla Brexit gli ha consentito di pescare voti sia tra gli europeisti, sia tra gli euroscettici. Ma alla fine la risalita non è stata sufficiente. Come spesso accade, le elezioni anticipate non hanno sciolto i nodi. Il terrorismo: gli attacchi mettono in discussione il modello multiculturale, difeso dal sindaco musulmano di Londra, Sadiq Khan, che è apparso a volte il vero capo dell’opposizione, in polemica pure con Trump (che tifava May). L’economia, che si è ripresa prima rispetto al continente, ma a prezzo di disuguaglianze crescenti. L’indipendentismo scozzese. E ovviamente la Brexit. Ormai l’Europa si è rassegnata a perdere Londra: un negoziato bizantino che seminasse incertezze non conviene a nessuno. Meglio separarsi in modo da minimizzare i danni sia per i lavoratori e gli studenti emigrati, sia per il libero commercio e i mercati finanziari.

Il voto inglese e francese di questi giorni, unito a quello tedesco di settembre, può imprimere un cambio di passo alla costruzione europea: senza il Regno Unito, da anni preoccupato di frenare se non di boicottare, Parigi e Berlino non hanno più scuse, e possono procedere. Intanto a Roma si calcola ogni giorno al rialzo il prezzo che l’instabilità comporta per i tassi e per la gracile ripresa.

CORRIERE.IT

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