Renzi: «Adesso c’è quasi un anno davanti per occuparci dell’Italia Uniti con Giuliano possibile il 40%»
«Era doveroso provarci; ma adesso la partita è chiusa. Ora abbiamo un orizzonte di quasi un anno prima del voto. Lavoriamo per l’Italia. Prepariamoci con l’approccio del maratoneta, non del centometrista».
La legge elettorale non si farà più?
«Mi pare difficile, se la legge che ha in teoria il consenso dell’80% dei parlamentari va sotto al primo passaggio a scrutinio segreto. Dopo l’appello del Capo dello Stato, il Pd ha provato seriamente a scrivere insieme le regole del gioco. È evidente chi è stato a far fallire tutto».
I 5 Stelle negano: sono sempre stati a favore dell’emendamento.
«Non prendiamoci in giro. In commissione avevano votato contro. O l’accordo vale per intero, o salta».
Ci sono stati anche franchi tiratori del Pd.
«Sei o sette su 300. I grillini si sono mostrati attendibili sulla legge elettorale come lo sono sui vaccini o sulle scie chimiche. E pensare che una parte della classe dirigente li considera interlocutori affidabili…».
A chi si riferisce?
«Una parte dell’establishment di questo Paese liscia il pelo ai populisti; mentre nel resto d’Europa si fa argine contro di loro. In Inghilterra l’Ukip sparisce, in Francia Macron prende il 23% al primo turno e il 66% al secondo perché è un baluardo contro il populismo. In Italia il Pd è la diga contro i populisti: chi piccona la diga, mette a rischio il Paese».
Forza Italia sostiene che non si può fermare tutto per un dettaglio.
«Non è un dettaglio: riguarda i diritti delle minoranze linguistiche, i trattati internazionali. Ora noi dobbiamo evitare un fallo di reazione. Questo regalo a Grillo non glielo facciamo. Il fatto che Grillo abbia fatto cadere l’accordo, su un emendamento presentato da una deputata di Forza Italia, non significa che ora si possa fare una legge contro Grillo, o contro Berlusconi».
Quindi la legge elettorale non si farà.
«Se si fa, deve avere il consenso dei 5 Stelle e di Forza Italia. E poi una legge c’è: quella uscita dalla sentenza della Consulta. Tutti sanno che il modello tedesco non era il nostro; ma sarebbe stato positivo per il Paese avere regole condivise. È andata così».
Pare quasi sollevato.
«No. Però almeno ora possiamo parlare di Jobs Act, di superare l’accordo di Dublino sui migranti, di come buttare ancora giù le tasse, di come portare a Milano l’Agenzia europea dei farmaci. Andare sui contenuti».
Quando si vota?
«Nel 2018, alla scadenza della legislatura. Come ho sempre detto. Questo governo è il nostro governo. Noi lo difendiamo. Non ero io a chiedere a tutti i costi di votare».
Come no?
«Almeno due dei contraenti del patto, Grillo e Salvini, volevano le elezioni. E in effetti, approvata la legge, il tema si sarebbe posto. Ma ora che la telenovela si è chiusa, la scommessa è fare una buona legge di bilancio per consolidare la ripresa. Abbiamo poco meno di un anno di tempo: dobbiamo impiegarlo senza perdere neanche un minuto, per stare fuori dal chiacchiericcio della politica politicante e dentro ai problemi reali. La questione demografica in Italia è più importante della legge elettorale, l’occupazione dello sbarramento. Siamo a 854 mila posti di lavoro creati dal 22 febbraio 2014; possiamo arrivare al milione».
Guardi che siamo il Paese che cresce meno in Europa.
«Non è così, come dimostrano gli ultimi dati Istat. E nel 2017 le cose miglioreranno grazie alle misure che abbiamo preso durante i mille giorni, da Industria 4.0 agli investimenti. Certo, abbiamo margini di crescita decisamente superiori».
I fondatori del Pd, Prodi e Veltroni, sono molto critici con lei. L’accordo con Berlusconi, dicono, sarebbe un disastro.
«Ho visto Veltroni, ho sentito Prodi. Ho molto rispetto per le loro considerazioni. Non c’è dubbio che il Pd nasca a vocazione maggioritaria. Di per sé il maggioritario non garantisce la governabilità, come vediamo ora in Inghilterra; l’unica formula è il ballottaggio, contro cui erano in prima fila molti dei commentatori che si sono scagliati contro le larghe intese del tedesco. Ma aver equiparato un patto istituzionale a un patto di governo è stato un salto logico».
Ma se tutti dicono che lei e Berlusconi siete già d’accordo.
«Berlusconi si è speso moltissimo contro di me e contro il referendum, dopo aver contribuito a scrivere la riforma e averla votata nelle prime letture. Il governo con Berlusconi l’ha fatto Enrico Letta, non io».
Comunque si voterà con il proporzionale. E lei avrà bisogno di alleati. Pisapia?
«Alla Camera il premio al 40% consente di tentare l’operazione maggioritaria, anche se non è facile. Con le forze alla sinistra del Pd siamo alleati in molti Comuni dove ora si vota. Pisapia ha fatto per cinque anni il sindaco di Milano con il contributo fondamentale del Pd. Noi ci siamo; vediamo che farà lui».
Anche se c’è D’Alema?
«D’Alema è uscito dal Pd contro di me; non credo adesso voglia fare coalizione. Comunque non dipende dalle persone ma dai contenuti: tagli all’Irpef, periferie, lotta alla povertà, Jobs Act. Non ho niente contro i fuoriusciti. Credo però che alcuni faranno fatica anche a tornare alle feste dell’Unità; perché la nostra gente ha vissuto come una ferita il fatto che se ne siano andati non sulla base di un’idea, come nella tradizione anche nobile della sinistra, ma sulla base di un atavico odio ad personam. Da ultimo mi sono sentito fare la morale perché non sostengo Gentiloni da gente che nel 2013 non l’avrebbe neanche candidato, e ora non gli vota la fiducia».
Sarà un altro Parlamento composto da nominati.
«Non è vero, i capilista bloccati sono cento su 630. Dobbiamo scovare, valorizzare e candidare non soltanto i soliti noti, ma espressioni solide della società italiana. Quando si tratta di prendere voti con le preferenze, con le primarie, con i collegi, il Pd la sua parte la fa. Altri nei Comuni hanno preso da 9 a 47 preferenze: vada a vedere i risultati di Toninelli a Crema, di Di Maio a Pomigliano. E questi hanno immaginato di essere i grandi strateghi degli accordi elettorali?».
Ci sarà il suo nome sul simbolo?
«No, come non c’era alle Europee. Magari porta bene».
Nel 2018 sarà lei il candidato premier?
«A decidere il candidato sono i voti, non i veti. Al momento opportuno gli italiani decideranno. Noi intanto dobbiamo occupare lo spazio politico del buon senso, della ragionevolezza, contro gli urli e i populisti. È uno spazio che forse non vale il 51%; ma esiste. Una forza tranquilla».
La tranquillità non pare la sua dote migliore.
«A volte leggo di me sui giornali e non mi riconosco. Io non sono come mi raffigurate. Non sono accecato dall’ansia della rivincita. Vivo questa stagione con uno straordinario senso di gratitudine al Paese che mi ha permesso di fare il premier per mille giorni, nonché per gli italiani che mi hanno chiesto di guidare uno dei più grandi partiti europei».
Aveva detto che avrebbe lasciato la politica.
«Mi sono dimesso da Palazzo Chigi e dalla segreteria del Pd. Ma ho capito da tanti amici che non potevo dimettermi da cittadino. Nessuno è ripartito da zero come ho fatto io. Ma se sono qui è perché mi hanno votato centinaia di migliaia di persone».
Perché ha mandato via Campo Dall’Orto dalla Rai?
«Ma dai, io non c’entro nulla. Il cda ha bocciato il suo piano per l’informazione, con l’unico voto contrario del mio amico Guelfo Guelfi. Ad Antonio ho chiesto una cosa sola: togliere la pubblicità alla tv dei ragazzi, non decidere il conduttore di Ballarò».
Allora perché i suoi uomini della comunicazione attaccavano la Rai ogni giorno?
«Se si è dimesso, ci sarà stato qualcosa che non funzionava. Sono orgoglioso degli uomini che ho scelto per aiutarmi a guidare l’Italia: Descalzi, Del Fante, Starace, Cantone, Piacentini, Costamagna, Guerra, Mazzoncini. E adesso mi lasci dire buon lavoro a Orfeo».
E suo padre?
«Questa storia ha due aspetti. Il primo è umano: dopo aver letto sui giornali di suoi incontri segreti, ho dubitato di mio padre; e questo mi ha fatto male. Non me lo perdono. Perché la notizia era falsa».
Ma suo padre non farebbe meglio a occuparsi dei nipoti?
«È quello che vorrebbero anche i nipoti. Ma in uno Stato di diritto un cittadino non può leggere quello che abbiamo letto: “Datemi un pezzo di carta perché così arresto Tiziano Renzi”. Uno, perché gli arresti li fanno i giudici, non qualche ufficiale di polizia giudiziaria. Due, perché le prove vanno trovate, non fabbricate. Qui c’è l’aspetto politico: ho letto preoccupati commenti di esponenti delle istituzioni sul fatto che i quattro principali partiti si accordavano sul proporzionale; ma non ho sentito una voce per denunciare questi fatti di gravità inaudita. Non ho sentito nessuno darmi una risposta per sapere se è vero o no che un ufficiale giudiziario ha scientemente mentito, accusandomi di aver usato i Servizi segreti per fermare un’inchiesta. Io ho grande rispetto per i carabinieri e la magistratura; ma voglio sapere se qualcuno ha fabbricato prove false per arrestare il padre dell’allora presidente del Consiglio. Su questo andrò fino in fondo, senza arretrare di un centimetro. Extra costituzionale non era il patto sulla legge elettorale: fuori dalla Costituzione c’è questa roba qua. E io da cittadino voglio la verità».
CORRIERE.IT
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