I partiti e le urne, l’inutile fretta per il voto
Non è vero che tutto sia andato perduto. Il progetto di dar vita ad un nuovo sistema elettorale con un voto del Parlamento pressoché unanime — per la prima volta dopo venticinque anni — è troppo importante per esser lasciato cadere a causa di un pugno di voti malandrini e di patti non rispettati. Del resto, era da ingenui ritenere che non si sarebbero verificati incidenti di percorso: cosa autorizzava l’illusione che quattro, cinque protagonisti di una guerra più che ventennale realizzassero un disarmo (per giunta provvisorio) in un clima da déjeuner sur l’herbe? Adesso l’alternativa è secca: o abbandonarsi alle ripicche dimostrando con ciò che le intenzioni stesse erano insincere, o riprendere il cammino avendo come meta i due giorni conclusivi in cui Camera e Senato voterebbero a stragrande maggioranza la nuova legge. Legando i nomi dei protagonisti dell’impresa ad una circostanza che con ogni probabilità non è destinata a ripetersi.
Per riprendere il cammino, però, è necessario — ad ogni evidenza —
che sia immediatamente lasciato cadere il tema delle elezioni anticipate. Né il Parlamento, né il Paese hanno mostrato di gradire questa prospettiva. Moltissimi, infatti, hanno protestato, talvolta con argomenti speciosi, contro tale disegno. Ma non si è levata neanche una voce indipendente (neanche una!) a chiedere la convocazione estiva dei comizi elettorali.
A questo proposito si deve dar atto al governo e soprattutto a Sergio Mattarella di aver studiato e predisposto un percorso ordinato per mettere al sicuro i conti del Paese anche nel caso si fosse scelto di andare alle urne a fine settembre. Avrebbe potuto il Capo dello Stato limitarsi alle tradizionali (e un po’ vuote) esortazioni a che la legislatura compisse per intero il proprio cammino. Ha fatto di più: ha reso possibile che, ove mai i partiti avessero deciso di accelerare il ricorso alle urne, la via fosse percorribile senza danni o con nocumento ridotto per la nostra economia.
Ciò detto, abbiamo l’impressione che su tale questione (ripetiamo: da accantonare una volta per tutte) ci sia stato un di più di eccitazione sia da parte di chi chiedeva la fine anticipata della legislatura, sia di chi voleva scongiurarla. Probabilmente tra qualche tempo scopriremo perché era così importante affrettare o ritardare il ricorso al voto. In ogni modo, preferendo d’istinto la scadenza naturale, ci fidiamo di coloro che annunciavano cataclismi nel caso i tempi regolari di tale scadenza non fossero stati rispettati. Su una cosa però è doveroso essere chiari: è poco onesto lasciar correre l’idea che se avessimo votato ai primi d’autunno con la legge elettorale affossata l’altro ieri, non avremmo avuto un inizio ordinato della prossima legislatura, mentre, se andremo alle urne a primavera del 2018 ci sarebbe consentito, sulla base di una nuova legge, di «sapere — secondo la nota formula — chi ha vinto la sera stessa del voto». No, la sera del voto non sapremo chi governerà neanche se voteremo nel 2018. E neppure se votassimo nel 2019. Con qualsiasi legge venga partorita da questo Parlamento: nel rispetto delle due sentenze della Corte costituzionale che hanno affossato le riforme di Silvio Berlusconi prima e di Matteo Renzi poi, è poco probabile infatti che la sera del voto si sappia alcunché. Assai poco probabile. Avendo reso estremamente arduo il ricorso al ballottaggio — l’unico metodo per tradurre maggioranze relative di voti in maggioranze assolute di seggi parlamentari — la Consulta ha reso pressoché inevitabile che il prossimo Parlamento non abbia una maggioranza certa. Almeno ad inizio legislatura.
Può darsi che questa decisione della Corte costituzionale, che avrà l’effetto di impedire al Movimento Cinque Stelle di ottenere una facile vittoria così come l’avevano ottenuta nei ballottaggi di Roma, Torino e di quasi tutti i comuni dove si era votato a fine primavera dello scorso anno, sia stata determinata da ottime intenzioni e da un alto senso di responsabilità. Può anche darsi che il sistema dei ballottaggi di collegio ci avrebbe fatto correre il rischio di avere maggioranze diverse nelle due Camere. Ma è bene che si prenda atto fin d’ora che — a causa delle diverse platee elettorali: per la Camera si vota dai 18 anni in su, per il Senato dai 25 — questo rischio lo si correrà anche con quel sistema sostanzialmente proporzionale prefigurato dalle sentenze della Consulta.
Ciò detto si può fare un primo bilancio della burrascosa settimana che ci lasciamo alle spalle. I seguaci di Beppe Grillo si sono dimostrati scarsamente affidabili (e questo già lo si sapeva) ma politicamente assai abili. Stanno imparando a giocare a scacchi e il loro gioco è esplicito: restare in partita pur senza rinunciare a mettere in difficoltà i loro futuri avversari tutte le volte che è possibile. È tutto chiaro in partenza. Matteo Salvini al momento si dedica a questo gioco dando prova di affidabilità e di controllo del suo esercito. Ed è stato di parola. I seguaci di Pier Luigi Bersani hanno avuto il coraggio di approvare la soglia del 5% nonostante i sondaggi li dessero tra il 3 e il 4. Evidentemente confidano che il processo aggregativo del dopo li avrebbero collocati in una dimensione di sicurezza. Sono poi tuttora affetti dalla «sindrome dell’ex» per cui nei singoli passaggi di questa vicenda si mostrano propensi a non lasciarsi sfuggire l’occasione di fare qualche sgambetto al partito di provenienza. Prevedibile ma legittimo. Silvio Berlusconi sta vivendo una stagione d’oro: dopo essere stato tra i trionfatori del No, non trova più nell’intero sistema mediatico qualcuno che gli muova degli appunti (se non di maniera), dispensa consigli per lo più saggi che talvolta appaiono persino disinteressati e si è ritagliato uno spazio che lo colloca tra i vincitori di domani al di là del risultato elettorale che riuscirà a ottenere. Risultato che, tra l’altro, da qualche segnale si intravede come migliore del previsto. I centristi hanno compiuto un errore a mostrarsi piagnucolosi per la soglia al 5 per cento; avrebbero dovuto dare prova di orgoglio e mettere in mostra da subito la certezza di potercela fare in ogni modo. Renzi d’altra parte ha fatto malissimo ad offenderli inutilmente dando ancora una volta la prova che a stargli vicino nei momenti per lui difficili (dimissioni di ministri, avventura referendaria) non c’è da attendersi una grande riconoscenza. Il segretario del Pd ha costruito attorno a sé un reticolo viario composto da autostrade a otto corsie con numerosi e confortevoli grill che portano lontano da lui e impervi viottoli ricchi di insidie per chi a lui intendesse avvicinarsi. Al momento è ben visibile il traffico sulle autostrade in uscita e si fa una certa fatica ad identificare viandanti che percorrano le viuzze.
Dà l’impressione, Renzi, di non aver affatto elaborato l’ accaduto di sei mesi fa, del 4 dicembre: attendiamo con ansia il suo libro, rinviato di settimana in settimana, di cui per ora si sono viste soltanto prove di copertina. Dà altresì la sensazione di essere in partita solo per cercare una rivincita (con le elezioni anticipate, appunto) e di pensare esclusivamente al proprio ritorno alla guida del governo. E già si intravede che — una volta sepolta la questione delle urne — quello del suo ritorno a Palazzo Chigi sarà il bersaglio polemico dei suoi sempre più numerosi detrattori. È il difetto, questo, che ha contribuito al suo tracollo referendario: io da solo contro tutti, molti nemici molto onore. Su ciò non avrà problemi: i nemici paiono destinati ad aumentare e, di conseguenza, anche l’onore. Ma è dagli amici che da adesso in poi dovrà guardarsi, soprattutto da quelli che non renderanno esplicite le proprie riserve nei confronti di questa sua strategia. Sulla loro affidabilità, è auspicabile che fin d’ora nutra qualche dubbio.
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