I populismi non sono sconfitti

Giovanni Orsina
 

Due mesi fa, malgrado i sondaggi unanimi ne predicessero la netta sconfitta al secondo turno chiunque ne fosse il concorrente, non si parlava d’altro che del pericolo Marine Le Pen. Oggi, davanti al risultato del voto parlamentare francese, ma anche delle elezioni austriache, olandesi, inglesi, e da ultimo delle amministrative italiane, si festeggia l’esaurirsi dell’ondata populista.

 Era miope e isterico l’allarme allora, è miope e isterico il sollievo adesso. Facciamo un respiro profondo, inforchiamo gli occhiali, e cerchiamo di allargare un po’ la prospettiva.

L’emergere dei populismi non è una malattia della politica, ma il sintomo d’una malattia della politica. È legittimo rallegrarsi se il sintomo si attenua, ma è da sconsiderati dimenticare che il vero problema è il morbo sottostante. Tanto più se, al contempo, altri sintomi diventano invece più visibili. Ma quale sarebbe dunque questa malattia?

 

In breve: l’incapacità diffusa delle élite politiche di elaborare un progetto minimamente lungimirante di governo della comunità; di costruirci intorno un consenso ragionevolmente duraturo nel tempo; e di dare così a quella comunità la sensazione di esser protetta dalle angoscianti incertezze del futuro. O se si preferisce, ancora più in breve: l’incapacità delle democrazie di controllare la storia.

 

La malattia non è recente, ne soffriamo da almeno mezzo secolo. Non per caso l’epifania del populismo data almeno dal 1973, quando il partito del progresso, nato l’anno precedente, raccolse alle elezioni parlamentari danesi il sedici per cento dei voti. A quella prima ondata populista ne seguì una seconda alla metà degli Anni Ottanta: i successi del Front National in Francia, l’ascesa di Haider alla guida del partito liberale austriaco, la comparsa delle leghe in Italia. E poi a partire dal 2000 una terza, che dura ancora oggi.

 

La marea monta e cala per tante ragioni. Il crescere o il diminuire delle preoccupazioni per il futuro, ad esempio: migrazioni, sicurezza, disoccupazione, crisi economica. La basculante credibilità delle stesse forze populiste, penalizzate dall’irrilevanza se restano all’opposizione; penalizzate dalla normalizzazione o dal fallimento se arrivano al potere; penalizzate dalle violente faide interne che le affliggono tanto quanto i partiti tradizionali.

 

La marea, naturalmente, va e viene anche in funzione delle contromisure che adotta l’establishment. Da ultimo, la Francia e il Regno Unito ci hanno proposto due strategie antipopuliste opposte l’una all’altra, ma per il momento efficaci entrambe. Al di là della Manica i due partiti storici, eliminata col referendum la questione europea, sono riusciti a rispondere alla protesta e a ristabilire (almeno per il momento) lo schema bipartitico. In Francia invece i populisti sono stati arginati da un personaggio fresco, giovane e brillante che ha saputo fagocitare le due forze politiche tradizionali, ormai screditate. Da un parte il vecchio establishment bipartitico s’è riaffermato assorbendo le istanze populiste. Dall’altra è nato un bipolarismo nuovo fra l’establishment e i populisti.

 

A ulteriore dimostrazione di quant’è grave la malattia della politica, tuttavia, le due strategie hanno preteso entrambe un prezzo salatissimo: la Brexit da una parte, la ristrutturazione completa dello spazio pubblico dall’altra. Pure se nell’immediato hanno funzionato, poi, non abbiamo nessuna garanzia che quelle strategie avranno successo anche nel medio periodo. E a dispetto di quel che possa parere adesso, la situazione francese è per tanti versi più incerta ancora di quella britannica: malgrado i trionfi di Macron, il cinquanta per cento raccolto dai candidati anti-establishment alle presidenziali e il cinquanta per cento di astenuti alle legislative danno testimonianza di un quadro politico assai fragile.

 

Per l’arretrare dei populisti, insomma, possiamo permetterci tutt’al più un quarto d’ora di festeggiamenti. Trascorso il quale sarà il caso di tornar seri in fretta.

LA STAMPA

 

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