Londra, incubo nelle fiamme
Seduta su un muretto, appena fuori dalla chiesa di St Clement, c’è una anziana donna di colore, un paio di ciabatte e un pigiama rosa. Stringe in mano un bastone di legno. Guarda fisso davanti a sé e piange in silenzio. Le lacrime le rigano il volto ma non fa niente per asciugarle. Piccoli sussulti le muovono le spalle. Inizia a parlare.
Marilyn e il marito si tengono per mano. Parla lui: «Ci hanno svegliato i colpi alla porta. Ho aperto e c’era un pompiere in ginocchio con un idrante puntato contro di noi che ha urlato: fuori fuori. Via via». Parla lei: «Abbiamo preso le bambine e il cellulare. Fuori era un delirio di urla, fiamme e un odore fortissimo di plastica bruciata». Tutti racconti così, racconti fotocopia dell’orrore. Urla, fumo, fiamme, scoppi e richieste di aiuto.
Le bambine di Leila sono dentro la chiesa. Giocano per terra, sotto l’altare. Qualcuno ha messo un computer su una sedia, con un cartone animato. Il parroco ha aperto le porte per dare un tetto alle centinaia di sfollati. I parrocchiani hanno allestito un punto di ristoro. Offrono caffè, frutta e biscotti.
Si organizza l’assistenza. Un angolo per medici e infermieri. In un altro si prendono i nomi di chi è vivo, di chi è disperso, di chi ha bisogno di una casa. Al fondo della navata iniziano ad accumularsi montagne di abiti, scarpe e sacchi di viveri. «Sto andando a lavorare, ho pensato che possa servire» dice un signore «posh», snob, in abito blu e consegna quattro sacchi a pelo. È il cuore di Londra che si apre, quando succedono queste tragedie.
Come quello di Tarek Gotti, mezzo libanese e mezzo italiano. È gigantesco, in sovrappeso da junk food, le enormi braccia piene di tatuaggi fuori dalla canottiera bianca. «Sono qui dalle due di stanotte. Ho portato questo carrellino con acqua e patatine. Ho aiutato decine di persone, siamo una comunità. Ci conosciamo tutti». Offre acqua a chiunque passi, pompieri coperti di fuliggine, sudati e neri. Polizia con le pettorine gialle. Un ragazzo si avvicina e gli allunga una sterline: «Quanto costa l’acqua?». «No fratello, è gratis».
Viene avanti una donna nera, urla al telefono. Poi attacca e si sfoga: «Le hanno detto di rimanere dentro. Io l’ho chiamata, le ho detto di scappare. Poi non ha più risposto al telefono. Sono sicura che è morta». Piange di rabbia. Sua cugina è dispersa. «È colpa loro». Loro chi? La polizia, i pompieri. Non si capisce.
Si forma un capannello. «La colpa è di questi bastardi della società che ha ristrutturato la torre» dice Joe, Est europeo, in tuta da ginnastica. «So che un comitato di cittadini aveva protestato perché non erano rispettate le orme antincendio». Voci di quartiere che rimbalzano. Interviene Junaird, nero, cappellino da basket e tuta di acetato: «Dicono che è stato un frigorifero, una presa che ha fatto cortocircuito. Ma io non ci credo. La torre era una trappola. Dieci milioni di ristrutturazione ma hanno solo rifatto il rivestimento esterno. Dentro è rimasto una merda. C’era una sola uscita d’emergenza. Loro si prendono i soldi e noi ci fanno morire qui dentro».
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