Londra, incubo nelle fiamme

caterina soffici
londra

Seduta su un muretto, appena fuori dalla chiesa di St Clement, c’è una anziana donna di colore, un paio di ciabatte e un pigiama rosa. Stringe in mano un bastone di legno. Guarda fisso davanti a sé e piange in silenzio. Le lacrime le rigano il volto ma non fa niente per asciugarle. Piccoli sussulti le muovono le spalle. Inizia a parlare.

 Lo sguardo sempre fisso avanti. «Sentivo le grida. Grida terribili, come ululati di animali. Voci di bambini. Urlavano mamma, mamma. Altri chiedevano aiuto. Sentivo il crepitio del fuoco che si avvicinava. E poi una serie di scoppi. Esplosioni di gas ho pensato». Le lacrime continuano a scendere. Chiedo: «Lei ha visto tutto da vicino?», «Mi piacerebbe poter vedere. Sono cieca. Ma è come se avessi visto tutto. E ho questa voce nella testa: aiuto aiuto, ho un bambino. Siamo qui. Non potrò mai dimenticarla. Ce l’ho qui» e si tocca con il dito contro la tempia. «Ho sentito che una signora si è buttata dal decimo piano ed è morta sul colpo. Altri gettavano i bambini dalla finestra, per salvarli. Un’altra donna ha lasciato il figlio disabile dentro».

Si chiama Leila, è una delle sopravvissute. Lei è stata portata fuori dai vigili del fuoco. Abita nello stesso blocco di case popolari, un complesso di appartamenti «molto etnici», come si dice qui. Un eufemismo per dire immigrati da tutto il mondo, tra cui molti musulmani, accomunati da una sola cosa: la povertà.

Si chiama Lancaster West Estate. La Grenfell Tower fa parte del complesso, costruito negli Anni 70. Siamo a North Kensington, a due passi dalle strade del glamour di Notting Hill e al mercatino di Portobello Road. Ma è tutta un’altra Londra. È la Londra delle gang, dello spaccio fuori dalla Tube Station di Latimer Road, degli adolescenti coi coltelli. Povera gente che non potrebbe mai permettersi una casa nel quartiere, dove i prezzi medi si aggirano sui due milioni di sterline. Sono per lo più famiglie con bambini. Ma anche disoccupati, disabili o ragazze madri: le sfortune della vita fanno punteggio nell’assegnazione di questi alloggi a prezzo ridotto.

 

Marilyn e il marito si tengono per mano. Parla lui: «Ci hanno svegliato i colpi alla porta. Ho aperto e c’era un pompiere in ginocchio con un idrante puntato contro di noi che ha urlato: fuori fuori. Via via». Parla lei: «Abbiamo preso le bambine e il cellulare. Fuori era un delirio di urla, fiamme e un odore fortissimo di plastica bruciata». Tutti racconti così, racconti fotocopia dell’orrore. Urla, fumo, fiamme, scoppi e richieste di aiuto.

Le bambine di Leila sono dentro la chiesa. Giocano per terra, sotto l’altare. Qualcuno ha messo un computer su una sedia, con un cartone animato. Il parroco ha aperto le porte per dare un tetto alle centinaia di sfollati. I parrocchiani hanno allestito un punto di ristoro. Offrono caffè, frutta e biscotti.

 

C’è una calma operosa e surreale, come se ognuno sapesse perfettamente cosa fare, anche se sono tutti volontari, arrivati alla spicciolata, carichi di generi di prima necessità, teiere (il tè non manca mai) e addirittura una macchina del caffè.

Si organizza l’assistenza. Un angolo per medici e infermieri. In un altro si prendono i nomi di chi è vivo, di chi è disperso, di chi ha bisogno di una casa. Al fondo della navata iniziano ad accumularsi montagne di abiti, scarpe e sacchi di viveri. «Sto andando a lavorare, ho pensato che possa servire» dice un signore «posh», snob, in abito blu e consegna quattro sacchi a pelo. È il cuore di Londra che si apre, quando succedono queste tragedie.

 

Come quello di Tarek Gotti, mezzo libanese e mezzo italiano. È gigantesco, in sovrappeso da junk food, le enormi braccia piene di tatuaggi fuori dalla canottiera bianca. «Sono qui dalle due di stanotte. Ho portato questo carrellino con acqua e patatine. Ho aiutato decine di persone, siamo una comunità. Ci conosciamo tutti». Offre acqua a chiunque passi, pompieri coperti di fuliggine, sudati e neri. Polizia con le pettorine gialle. Un ragazzo si avvicina e gli allunga una sterline: «Quanto costa l’acqua?». «No fratello, è gratis».

 

Viene avanti una donna nera, urla al telefono. Poi attacca e si sfoga: «Le hanno detto di rimanere dentro. Io l’ho chiamata, le ho detto di scappare. Poi non ha più risposto al telefono. Sono sicura che è morta». Piange di rabbia. Sua cugina è dispersa. «È colpa loro». Loro chi? La polizia, i pompieri. Non si capisce.

Si forma un capannello. «La colpa è di questi bastardi della società che ha ristrutturato la torre» dice Joe, Est europeo, in tuta da ginnastica. «So che un comitato di cittadini aveva protestato perché non erano rispettate le orme antincendio». Voci di quartiere che rimbalzano. Interviene Junaird, nero, cappellino da basket e tuta di acetato: «Dicono che è stato un frigorifero, una presa che ha fatto cortocircuito. Ma io non ci credo. La torre era una trappola. Dieci milioni di ristrutturazione ma hanno solo rifatto il rivestimento esterno. Dentro è rimasto una merda. C’era una sola uscita d’emergenza. Loro si prendono i soldi e noi ci fanno morire qui dentro».

LA STAMPA

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