Moby Dylan
Può capitare a tutti di copiare, nella vita. Tranne che a un premio Nobel per la letteratura, e proprio nella stesura del discorso che lo consacra tale. Invece pare che a Bob Dylan sia riuscito anche questo capolavoro. La sua orazione di ringraziamento per i parrucconi scandinavi che lo hanno preferito a gente come Philip Roth contiene frasi riprese di sana pianta dal Moby Dick di Hermann Melville. E neppure dall’originale, che almeno presupporrebbe lo sforzo di una rilettura, ma da un bignami agevolmente rintracciabile su Internet. Si cominciano a capire le ragioni del ritardo con cui Dylan ha consegnato il discorso alla giuria: stava aspettando la liberatoria dal capitano Achab.
Ma nemmeno un uomo così presuntuoso da credersi Bob Dylan può clonare Moby Dick e pensare di farla franca. Nell’era del web, poi, dove basta un clic per incrociare qualsiasi testo. Più che leggerezza, una scelta del genere rivela sciatteria e menefreghismo. Però quanto è dura per certi eterni ragazzi degli anni Sessanta dovere ammettere che il loro idolo si comporta come Melania Trump. La poveretta era stata messa in croce dai nasini arricciati dell’intellighenzia americana per avere scopiazzato un discorso di Michelle Obama. Eppure oggi gli stessi nasini arricciati difendono Dylan dicendo — come un professore della George Washington University — che «si è limitato a riscrivere alcuni passaggi». Il Maestro non copia. Riscrive. E se fosse pure lui un po’ cialtrone? La risposta soffia nel vento, diceva una sua canzone. Ma forse era di Melville.
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