Ius soli, quei riflessi fascisti in Parlamento
di MICHELE AINIS
DOPO un paio d’anni di stallo, con quella legge sepolta da migliaia di emendamenti, cominciavamo a sospettare che i nostri senatori fossero insensibili alla riforma della cittadinanza. Alleluia, ieri ci hanno offerto la prova contraria. Sono così sensibili da dover ricorrere agli antidolorifici, dopo una giostra di mischie, spinte, pestoni, dopo un andirivieni concitato verso l’infermeria di Palazzo Madama.
Merito della Lega, che ha innescato la bagarre. Ma questo genere di spettacoli mortifica l’intero Parlamento, non soltanto chi se ne renda artefice. Perché non è in questione il diritto al dissenso, anche nelle sue forme estreme, anche con l’ostruzionismo che proprio le destre imbastirono da quegli stessi banchi, negli anni Settanta, contro le Regioni o contro la riforma della Rai. No, qui è in questione la buona creanza, categoria a quanto pare ormai obsoleta, come il “galateo parlamentare” di cui ancora si legge nei manuali di diritto. Eppure la prima seduta della Camera, a Roma, fu inaugurata da una votazione sul cappello: succedeva infatti che l’aula fosse ancora priva di termosifoni, sicché alcuni deputati chiesero di derogare al protocollo indossando un berretto di lana, per proteggersi dal freddo. E la presidenza mise ai voti la richiesta.
Altri tempi, altre tempre. Ma in tutta questa storia c’è un altro sapore del passato che ci sale alla gola, c’è come un déjà vu. C’è un riflesso fascista, proprio così. Non solo per i saluti romani che contemporaneamente s’impennavano a piazza Vidoni, a qualche metro di distanza dal Senato, per una manifestazione di Forza nuova. Non solo perché anche il fascismo additava lo straniero come nemico potenziale, tenendolo in un perenne stato d’incertezza circa la sua permanenza nel Paese. È fascista, in sé, la violenza (ahimè, da ieri pure fisica, oltre che verbale) opposta a una legge che l’Italia attende da un quarto di secolo, che ci era stata già promessa nella legislatura scorsa, che ha addensato 26 progetti di legge nel 2013, all’alba di questa legislatura.
Anche perché la proposta in discussione non è affatto un colabrodo. Allarga la cittadinanza, però la sottopone a condizioni e limiti stringenti. È il caso dello ius culturae, che trasforma i minori stranieri in italiani, purché abbiano fatto ingresso nel nostro territorio entro i 12 anni, e purché frequentino le nostre scuole per almeno cinque anni. Ma è anche il caso dello ius soli, che rovescia lo ius sanguinis (è cittadino chi sia figlio di un genitore italiano) cui s’ispira la legge in vigore. Significa che d’ora in poi la cittadinanza s’accompagnerebbe alla nascita nel territorio dello Stato, come avviene negli Usa e in varie altre contrade; tuttavia soltanto per chi abbia almeno un genitore munito del permesso di soggiorno dell’Unione europea.
D’altronde qual è l’alternativa a questa legge? Lo status quo, ovvero un doppio danno: alla sicurezza e alla giustizia. Quanto alla prima, non c’è dubbio che la minaccia terroristica sia figlia della separazione, non dell’integrazione; i muri lì per lì ti rassicurano, ma alla lunga sono scelte suicide. Quanto alla giustizia, ne circola ben poca in un sistema che tiene fuori dall’uscio un milione di ragazzi per lo più nati in Italia, iscritti in un istituto scolastico italiano, che tifano Juve o parlano in dialetto calabrese.
Potranno forse chiedere la cittadinanza più tardi, quando diventeranno grandicelli; ma con le norme vigenti servono dieci anni di residenza ininterrotta sul suolo italiano, che in pratica diventano perlomeno 13 anni. Nel frattempo a un cittadino bastano 30 giorni per rinnovare il passaporto, a uno straniero ne occorrono in media 291 per rinnovare il permesso di soggiorno. E gli immigrati regolari non votano però pagano le tasse, mentre gli italiani residenti all’estero votano senza pagare dazio.Insomma, mettiamoci rimedio. Per loro, ma dopotutto anche per noi: l’ingiustizia è un veleno che intossica tanto le vittime quanto gli assassini.
REP.IT