La bad bank del governo per salvare le banche venete

alessandro barbera, gianluca paolucci
ROMA

Il piano A per salvare le banche venete è tramontato. Secondo quanto riferiscono fonti concordanti del Tesoro e delle istituzioni europee, la strada dell’intervento precauzionale finanziato dallo Stato per oltre cinque miliardi non è percorribile. Impossibile rispettare le regole europee, impossibile trovare banche disponibili a investire anche solo qualche decina di milioni su due soggetti con una struttura dei costi insostenibile. Il tentativo del governo di una «colletta di sistema» per garantire una parte dell’aumento di capitale è naufragato di fronte ai troppi no. Da qualche giorno nelle trattative con le grandi banche per evitare il fallimento di Vicenza e Veneto si parla apertamente di «risoluzione», e della loro cessione ad un prezzo simbolico. Attenzione però: lo schema al quale lavora Via XX settembre – che da ieri si avvale di Rothschild come advisor – non è sovrapponibile a quello che ha permesso alla spagnola Santander di acquisire in una notte il Banco Popular. La situazione delle venete è ormai tale da rendere quel tipo di operazione indigeribile persino per le spalle larghe di Intesa e Unicredit.

 Il sì di ieri della Commissione europea al decreto del governo che rinvia il pagamento del bond di Veneto banca in scadenza non tragga in inganno. Fra gli addetti ai lavori è ormai dato per certo che nei prossimi giorni la stessa Commissione dichiarerà impossibile procedere con l’intervento diretto dello Stato, spianando la strada alla separazione delle banche venete in due parti. Sul mercato ci saranno una «good bank» con gli sportelli e gli asset dei due istituti (fra questi l’invidiabile collezione d’arte della Popolare di Vicenza) e una bad bank alla quale verranno ceduti i crediti deteriorati. Al di là delle rassicurazioni del ministro Padoan, ciò significa che il «bail-in» delle due banche ci sarà, e investirà gli azionisti e certamente i cosiddetti obbligazionisti «junior». È vero però che nei piani del governo c’è l’intenzione – come fatto per il Monte dei Paschi – di risarcire tutti gli obbligazionisti «retail», ovvero i privati cittadini che hanno acquistato i titoli allo sportello nella convinzione di avere fra le mani prodotti sicuri.

 

 

Non è ancora chiaro chi sarà il compratore finale della Nuova banca del Veneto, l’ennesima Fenice che nascerà dalle ceneri di due istituti distrutti dalle ambizioni folli di un management incapace e truffaldino. In queste ore le trattative più avanzate sono con Intesa, la quale però da quando è guidata da Carlo Messina ha il chiodo fisso di rispettare gli impegni presi con il mercato, in particolare per quanto riguarda l’entità dei dividendi. In linea di principio Intesa è interessata al mercato veneto più di Unicredit: a Nordest è tradizionalmente più forte la seconda. Ma l’acquisto delle banche venete, seppure ripulite, potrebbe spingere la Bce a chiedere a Intesa un aumento di capitale che Messina al momento non sembra intenzionato a percorrere. D’altra parte l’istituto ha circa tre miliardi di cuscinetto di capitale disponibile rispetto alle richieste della stessa Bce. La partita è ancora aperta, e lo scorporo della bad bank rende il boccone veneto ghiotto anche ad altri, forse – così si vocifera nei palazzi – per un terzo gruppo italiano o un grosso concorrente internazionale. Nei piani del governo c’è anche un decreto ad hoc che permetterà la gestione del personale in uscita.

LA STAMPA

Rating 3.00 out of 5

No Comments so far.

Leave a Reply

Marquee Powered By Know How Media.