Intesa al lavoro sulle banche venete. Bene la “good bank” a prezzi bassi

gianluca paolucci
torino

Al momento al tavolo c’è solo Intesa», spiega una fonte coinvolta nella vicenda del salvataggio delle banche venete. Solo che 1,2 miliardi – che è quanto la commissione Ue richiede come intervento ai privati prima di autorizzare la ricapitalizzazione pubblica – sono tanti soldi anche per la banca più solida del sistema, quella con i parametri patrimoniali migliori e con 30 miliardi di riserve distribuibili. E’ per questo che da qualche giorno alcuni top manager dell’istituto sono al lavoro «pancia a terra» per cercare la quadratura del cerchio.

 A tirare le fila è Paolo Maria Grandi, segretario del cda con deleghe pesanti che vanno dai rapporti con i regolatori alle partecipazioni fino alle acquisizioni. Fonti dell’istituto spiegano che sarebbe previsto un incontro del top management per mercoledì prossimo per fare il punto sulla fattibilità dell’operazione, anche se al momento non risultano convocazioni.

Tutte le strade passano dal «burden sharing»: azzeramento delle azioni e dei bond subordinati. Cambia però, anche in maniera considerevole, la dimensione dell’intervento pubblico. Le opzioni a disposizione di Intesa Sanpaolo sono più d’una, ma nessuna al momento sembra facilmente percorribile. Anche perché i paletti entro i quali l’istituto è disponibile a farsi carico delle due banche sono stretti. Minimizzare gli impatti sul capitale e non intaccare la politica di dividendi che finora ha caratterizzato la gestione dell’Ad Carlo Messina.

 

Esclusa da subito un’operazione «modello spagnolo» – l’acquisto del Banco Popular da parte di Santander – perché troppo onerosa. Per coprire il deficit di capitale delle due banche – 6,4 miliardi secondo la Bce – servirebbe un aumento di capitale ingente, che Messina non ha nessuna intenzione di chiedere ai suoi soci. Un’altra strada è quella di separare i destini dei due istituti e prendere solo Veneto Banca. Ma anche questa opzione, oltre a lasciare irrisolto il problema di Popolare di Vicenza, sarebbe ritenuta troppo onerosa dal management di Intesa Sanpaolo.

Resta la strada dell’ingresso nel capitale accanto allo Stato.

 

Ma anche questa via sarebbe ritenuta non priva di rischi. Servono almeno 1,2 miliardi. Senza la garanzia che l’intervento sia risolutivo e con un socio di maggioranza, per quanto a tempo, come lo Stato. Di qui l’idea della risoluzione «morbida»: la creazione di una good bank e una bad bank, con Intesa che prende le «nuove» banche da fondere ripulite dalle sofferenze e delle cause legali. Resterebbe da gestire il nodo degli esuberi, ma su questo è al lavoro il governo e non è escluso un decreto ad hoc per incrementare la dotazione pubblica del fondo esuberi del sistema bancario (già incrementato con 800 milioni per tre anni, dei quali 600 milioni per il solo 2017).

 

Questa soluzione, gradita a Bruxelles perché minimizzerebbe l’intervento pubblico, passerebbe dall’intervento del fondo di risoluzione, alimentato dai contributi obbligatori di tutto il sistema bancario. Ma su questo punto sarebbe arrivata la ferma opposizione dell’Abi, che si sarebbe fatta voce dei numerosi malumori e dinieghi già arrivati a mezzo stampa al ministero dell’Economia.

 

La soluzione sarebbe allora un acquirente da subito anche per la bad bank, che avrebbe il compito di gestire le sofferenze dei due gruppi. Su questo sarebbero già stati avviati contatti con alcuni operatori specializzati come Fortress, che peraltro si è appena ritirato dalla partita delle sofferenze Mps. Per trovare la quadratura del cerchio serve ancora tempo. L’obiettivo di una chiusura entro la settimana sembra ancora alla portata, si spiega, con Rothschild al lavoro per conto del Tesoro. Ma prima, devono andare a posto tutti i pezzi.

LA STAMPA

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