Nel deserto soffia il vento di guerra

stefano stefanini
 

L’allarme per un ritorno alla guerra fredda non suona solo in Europa. Nelle ultime 24 ore Mosca e Washington sono venute ai ferri corti in Siria, dove avevano finora osservato una parvenza di convivenza se non di collaborazione. La caduta dello Stato Islamico lascia un vuoto di potere al centro della Mesopotamia. Russi e americani si stanno precipitando per controllarlo. Si è aperta la gara per arrivare primi alla capitale del califfato. La crisi siriana diventa così una crisi russo-americana.

 Gli americani hanno abbattuto un Sukoi-22 di Assad che bombardava la Forza Democratica Siriana (Sdf), anti-Isis e anti-regime, che gli Usa sostengono. Dicono di aver avvisato i russi. Mosca ha risposto con durezza, sospendendo la linea russo-americana di comunicazioni militari sulla Siria e avvertendo che considererà «bersagli» i velivoli americani e della coalizione: Damasco è un alleato e i suoi aerei non si toccano. Tanto per complicare la situazione, dall’Iran, l’altro alleato di Mosca, sono partiti, per la prima volta, missili contro il califfato.

 

Isis è la prima vittima della corsa a Raqqa. Non farà spargere molte lacrime. Sconfitto nelle ambizioni territoriali, il califfato cercherà di rifarsi col terrorismo ma la perdita delle proprietà immobiliari lo rende obiettivamente più debole e meno carismatico. L’Europa deve comunque prepararsi a uno jihadismo di ritorno, in aggiunta a quello già stanziale, che ha colpito anche ieri una Londra martoriata.

O le varie parti del negoziato siriano tornano al tavolo delle trattative o si profila una fase due della crisi siriana, questa volta dominata sullo sfondo dal braccio di ferro fra Russia e Stati Uniti. La presa di Raqqa sarà solo il primo atto. Sul terreno gli americani, i cui alleati curdi quasi circondano la città su tre lati, sono meglio piazzati. Potrebbero essere loro a piantare la bandiera, per procura e/o con qualche forza speciale. Si passerebbe però subito al secondo atto: il conflitto fra le forze (curdi, Sdf), sostenute dagli Usa e dalla coalizione internazionale, e quelle di Assad, affiancate dagli Hezbollah iraniani e appoggiate pesantemente dalla Russia.

 

Il rapporto di forze è favorevole a Damasco, almeno sulla carta. Mosca ha investito molto in Siria. Ha sul terreno un forte spiegamento militare, soprattutto aereo. Non si rassegnerà facilmente a vedere Assad perdente al centro della Siria, dopo averlo rimesso in sella su un buon terzo del paese, compresa la capitale, Aleppo (a terribili costi umanitari) e quasi tutta la fascia costiera. Non ci si tira indietro dopo essersi spinti a tanto. Gli altri attori regionali non staranno a guardare, a cominciare dalla Turchia anti-Assad ma che non vuole un rafforzato «Kurdistan» al proprio confine. Arabia Saudita e Qatar esporteranno le loro rivalità in Siria ancora più di quanto non abbiano già fatto. Ci sono tutti gli ingredienti per più anziché meno conflittualità.

 

Chi controlla Raqqa controlla uno spazio strategico fra Siria, Iraq, Iran, Turchia, Giordania e Arabia Saudita. E’ l’entroterra del Mediterraneo e del Golfo. I confini contano poco. Per gli attori regionali la posta è sempre stata alta. Per Russia lo diventa dal momento in cui Mosca ha scelto di fare della Siria il trampolino per il rientro sulla scena mediorientale e globale. Per gli Stati Uniti dal momento in cui la sfida russa mette in predicato la loro supremazia in Medio Oriente, incontrastata dalla fine della guerra fredda. Donald Trump ha fatto di Riad e Gerusalemme le sue prime tappe estere. Il rilancio americano, già alle prese con la difficile vertenza qatarina, sarebbe morto sul nascere.

 

Se non si riattiva il processo politico-diplomatico, come sta eroicamente cercando di fare da mesi l’inviato speciale delle Nazioni Unite, Staffan de Mistura, la crisi siriana si avviterà su stessa sulle spoglie del non compianto Stato Islamico. Il rischio è che diventi anche teatro di un confronto militare fra Stati Uniti e Russia, anche se solo per procura. La tenue speranza è che proprio perché direttamente coinvolte Washington e Mosca finiscano per negoziare e far negoziare anche gli altri. Come ai vecchi tempi.

LA STAMPA

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