Combinare diritti e doveri
SABINO CASSESE
Dobbiamo preoccuparci per il cauto riconoscimento del diritto alla cittadinanza di chi è nato in Italia da stranieri residenti da più di cinque anni e di chi vi ha studiato continuativamente per cinque anni? Ha fondamento razionale l’acredine di chi oppone cittadini a non cittadini, uomini, donne e bambini che vivono gli uni e gli altri nella stessa società, spesso nella stessa casa? Vediamo innanzitutto le proporzioni del fenomeno. Quasi il 4 per cento della popolazione mondiale vive in un Paese diverso da quello di cui è cittadino. Questa percentuale è cresciuta rapidamente in mezzo secolo ed è destinata ad aumentare velocemente. I non cittadini (o i nati in altri Paesi) costituiscono in alcuni Stati un quarto della popolazione, in altri (ad esempio, Regno Unito, Francia, Germania) un decimo, in Italia solo un dodicesimo. I minori che acquisirebbero il diritto a ottenere la cittadinanza italiana, se passasse la legge in esame al Senato, sarebbero circa 800 mila. Prima conclusione: il fenomeno è di proporzioni mondiali e in Italia si presenta in termini molto meno preoccupanti che in altri Paesi.
Se passiamo, poi, ad esaminare più da vicino la situazione italiana, si può notare che gli stranieri residenti legalmente rappresentano l’8 per cento della popolazione, più del 10 per cento degli occupati, l’8 per cento dei contribuenti; questi ultimi concorrono — secondo una stima — per circa il 5 per cento alle entrate dello Stato. Agli stranieri viene richiesto, quindi, l’adempimento dei doveri normalmente legati alla cittadinanza, primo tra tutti il rispetto dell’obbligo tributario, senza che ad essi vengano riconosciuti i diritti collegati, quelli così ben riassunti nella formula no taxation without representation (nessuna tassazione senza rappresentanza). Terza contraddizione: a coloro che risiedono stabilmente e legalmente sul territorio nazionale riconosciamo i diritti sociali, quelli civili, quelli economici, perché consentiamo loro di lavorare, di esprimersi liberamente, di istruirsi nelle scuole pubbliche, di farsi assistere negli ospedali, ma neghiamo la possibilità di godere dei diritti politici, il primo dei quali è quello di partecipare attivamente alla vita della collettività di cui fanno parte.
Tutti i Paesi sviluppati hanno dovuto affrontare queste contraddizioni, e le hanno risolte riconoscendo progressivamente il diritto a diventare membri a pieno titolo della società in cui vivono (in questo consiste la cittadinanza) a coloro che hanno messo radici stabili sul proprio territorio. Tutti gli Stati moderni hanno compreso che la tensione tra cittadini e non cittadini si risolve solo a patto di riflettere nuovamente su una grande questione: che cosa è un popolo e come si distingue una nazione? Schiavi, negri, donne hanno sempre fatto parte delle società in cui vivevano, ma a lungo sono stati privati del diritto di partecipare alla vita collettiva (ad esempio, del diritto di voto). Non si riproduce ora la stessa situazione per gli stranieri legalmente e stabilmente residenti nello Stato? Nel diritto romano si formò il principio quod omnes tangit ab omnibus approbetur (quel che riguarda tutti deve essere approvato da tutti). Quel principio passò poi nel diritto canonico. Regge oggi le moderne democrazie: ad esempio, la nostra Costituzione stabilisce che i diritti dell’uomo (dell’uomo, non del cittadino soltanto) siano riconosciuti e garantiti anche nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Perché alla preparazione delle regole non debbono concorrere anche coloro che — come i non cittadini in possesso dei requisiti disposti dalla legge — vi debbono sottostare?
Hannah Arendt coniò, in un suo scritto, la formula «diritto ad avere diritti», che dovrebbe spettare a tutti. Molte corti, nazionali e internazionali, hanno riconosciuto che non si può essere privati del diritto alla cittadinanza, che è la porta per vedersi riconosciuti altre aspettative. A quale titolo Paesi che si preoccupano del rispetto dei diritti umani in altri Stati non riconoscono a chi legalmente e stabilmente vive nel proprio territorio il diritto di far parte a pieno titolo della collettività alla cui vita contribuisce quotidianamente?
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