Un pacemaker nel cervello: “Così abbiamo rallentato la Sla”
di ELVIRA NASELLI
ROMA – La speranza per i malati di Sclerosi laterale amiotrofica (Sla) arriva da Roma. Perché sono stati i ricercatori del Campus Bio-Medico, il centro ospedaliero universitario nato sui terreni donati da Alberto Sordi, a spingere la stimolazione intracranica oltre i limiti e a rallentare la progressione della malattia per una decina d’anni. Un risultato ben oltre le speranze degli studiosi. È vero, si tratta di studi preliminari. Ma quando dall’altra parte c’è una malattia come la Sla che paralizza progressivamente ogni muscolo, senza alcuna possibilità di cura, ogni progresso è una notizia.
Lo studio – descritto su Brain Stimulation , e presentato oggi in occasione della giornata mondiale della Sla – è stato condotto da un’équipe di neurologi che da anni studiano le tecniche di stimolazione cerebrale per rallentare la sclerosi laterale. Stimolazione cerebrale esterna, non invasiva, ma fino a oggi con risultati insoddisfacenti. Poi, l’idea di andare oltre. E utilizzare una tecnica più invasiva, perché prevede che si piazzino due elettrodi lunghi 4 centimetri, dopo aver forato il cranio con un buco di un centimetro, direttamente sul cervello, nelle aree deputate al movimento. Intervento che sembra truculento ma è prassi per i neurochirurghi. Tutto sta a trovare chi ha voglia di sottoporsi ad una prassi così invasiva.
L’occasione per i ricercatori del Campus si chiama Sergio Orsini. Cinquantacinque anni, medico: certamente la cosa gioca molto nella sua decisione di offrirsi volontario e anche nell’esito della sperimentazione. Nel 2004, ha i primi sintomi della malattia e appare subito chiaro che il decorso è molto aggressivo e che la sopravvivenza stimata è di non più di tre anni. Decide di provarci, e con lui i medici. “Così, nel 2006, i neurochirurghi del Policlinico Gemelli, dove lavoravo – racconta Vincenzo Di Lazzaro, che oggi è direttore della Neurologia del Campus Bio-Medico – gli hanno impiantato due elettrodi corticali. Collegandoli sottocute a uno stimolatore esterno, una specie di pacemaker, che regola frequenza e intensità dello stimolo, sempre in modo che il paziente non avverta nulla”.
Passano due anni e i medici che controllano l’andamento della malattia stanno per buttare la spugna. L’approccio non sembra funzionare, la Sla continua a correre, forse appena più lenta. Ma poca roba. Non hanno però fatto i conti con il loro paziente, che in quell’approccio crede così tanto da continuare ostinatamente l’esperimento, anche quando i suoi medici non ci credono più, modulando intensità e frequenza dello stimolo. Oggi, a 13 anni dalla diagnosi è ancora vivo, sebbene collegato a un ventilatore. “Una sopravvivenza inusuale per una malattia che era sembrata subito molto aggressiva – continua Di Lazzaro – e che ci lascia sperare che questa possa essere una strada per rallentarne il decorso. Occorre ovviamente una sperimentazione su un numero più elevato di pazienti perché una sola osservazione ha un valore limitato. E in ogni caso è bene precisare che non parliamo di cura, perché una cura per la Sla ancora non esiste. Ma di rallentamento, che potrebbe consentire di guadagnare anche anni. E nonostante sia più invasiva, la strada della stimolazione intracranica è più vantaggiosa”.
Ma perché la scelta della stimolazione cerebrale? “Uno dei meccanismi della malattia – conclude Di Lazzaro – che sembra avere un ruolo fondamentale nella perdita dei neuroni è l’eccesso di uno dei neurotrasmettitori che permette la comunicazione delle cellule nervose, il glutammato, che aumenta diventando tossico e provocandone la morte. La stimolazione cerebrale può ridurre la risposta dei neuroni al glutammato, riducendo la sua tossicità”.