Banche, un salvataggio da 31 miliardi
Non è la cifra in sé, dice Stefano Caselli, docente di economia degli intermediari finanziari all’Università Bocconi. Piuttosto, «sono le risorse sprecate con il temporeggiamento». Sono più di 31 miliardi i soldi spesi per evitare il collasso di sistema bancario definito per anni «solido» nelle dichiarazioni ufficiali. Soldi delle banche sane e dei loro correntisti, soldi dei contribuenti e soldi dello Stato. Poco meno di due punti di Pil. O, se si preferisce, abbastanza per tagliare di quasi un punto e mezzo il debito pubblico. Soo numeri ancora provvisori ma rendono bene l’idea. Più di un miliardo e mezzo di euro al mese, se si considera il primo intervento quello fatto su quattro piccole banche dell’Italia centrale nel novembre del 2015.
Il «paziente zero» dell’epidemia bancaria italiana si chiama però Mps. Viene scoperto nel gennaio del 2013. Scandali, inchieste e aumenti di capitale si trascinano per quattro anni. A giorni dovrebbe arrivare il via libera europeo per la sua nazionalizzazione. Da solo costa almeno 8,8 miliardi, in parte soldi dei contribuenti e in parte degli investitori che avevano comprato i suoi bond subordinati. Dal focolaio senese, la crisi bancaria italiana passa a colpire soggetti più fragili. In un fine settimana di novembre dello 2015 viene decisa la risoluzione di quattro piccole banche locali che valevano, tutte insieme, appena l’1% del mercato bancario italiano. L’obiettivo dichiarato era evitarne il fallimento e rivenderle in breve tempo, ripulite e di guadagnarci anche un po’. Banca Marche, Etruria, CariFerrara e CariChieti sono costate almeno 5,3 miliardi al sistema bancario, che ha finanziato il fondo di risoluzione. Poi sono state comprate da Ubi Banca e Bper per un euro nei mesi scorsi. Nella primavera dello scorso anno intanto scoppia il bubbone delle popolari venete. Il fondo Atlante, promosso dal governo ma finanziato dal sistema bancario e dalle fondazioni, ci mette dentro 3,5 miliardi di euro. Doveva essere la soluzione definitiva del problema. Passato dall’azzeramento di oltre 200 mila azionisti e da oltre 10 miliardi di ricchezza bruciata. Ma la fornace accesa in anni di gestione sconsiderata tra Vicenza e Montebelluna ha continuato a bruciare e ha cancellato anche i soldi di Atlante, fino all’inevitabile e tribolato intervento statale di oggi.
Contribuenti e correntisti
«Se la soluzione sono i soldi dei depositanti alla fine si tratta sempre dei soldi dei contribuenti», dice Caselli. Perché i soldi bruciati da Atlante erano soldi delle banche, come erano soldi del sistema bancario quelli spesi per le quattro banche e per tre piccole casse di risparmio in crisi (San Miniato, Rimini e Cesena). Il totale dei soldi spesi dal sistema bancario per evitare il collasso del sistema bancario sono stati pari a circa 12 miliardi di euro. Soldi almeno in parte recuperati grazie agli aumenti dei costi dei conti correnti.
Si arriva così ai soldi pubblici, cioè dei contribuenti, senza intermediazioni. Per Montepaschi serviranno almeno 6,6 miliardi, per le due banche venete addirittura di più: forse fino a nove miliardi. Non bastano: altri tre o quattro miliardi arriveranno dall’azzeramento del patrimonio e delle obbligazioni subordinate.
Temporeggiamento
Ci sarebbe da calcolare il costo delle crisi di fiducia, quello del finanziamento sui mercati delle banche italiani e quello per la raccolta per le banche in difficoltà. Intervenire prima, a Vicenza come a Siena o ad Arezzo, poteva servire per risparmiare dei soldi. «Adesso è facile da dire – dice Caselli -. Di certo il tema della vendita dei crediti non performanti è stato sottostimato. Forse la nostra presenza a Bruxelles non è stata così decisiva. Ma che si dovesse intervenire con soldi pubblici io come altri osservatori lo sosteniamo da anni». Alla fine ci siamo arrivati. Nel frattempo abbiamo già pagato tutti.
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