Un risultato chiaro e le future lacerazioni del proporzionale

A caldo , il risultato sembra di facile lettura: il centrodestra ha vinto, il centrosinistra ha perso, e i Cinque Stelle si erano già spenti due settimane fa. A freddo, però, l’analisi deve spingersi oltre. Intanto, va registrato un brutto calo della partecipazione: sotto il 50 per cento. Nelle pieghe della vittoria di Lega e Forza Italia si annida la competizione tra Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, sbilanciata a favore del primo. Quanto alle sinistre, il Pd deve prendere atto che l’effetto delle primarie è svanito; e che la finzione di unità a livello locale non ha dato i risultati sperati. Di fatto, il movimento di Beppe Grillo non c’è stato ma si sa che alle Politiche ci sarà, eccome. A occhio, verrebbe da dire che i ballottaggi di ieri forse sono l’ultimo omaggio alle logiche del maggioritario, in vista della sua archiviazione; e che preparano mesi di lacerazioni e polemiche, a destra e a sinistra, in attesa di un sistema proporzionale dai contorni confusi. La resurrezione dell’ex Polo delle libertà, però, non può essere sottovalutata. È una conferma, dopo i segni di vitalità offerti al primo turno. E imporrà ai suoi capi di tentare un’intesa che faccia superare contrasti anche personali: sebbene difficilmente Berlusconi darà via libera a una candidatura di Salvini a Palazzo Chigi, ritenuta estremista e perdente.

Il profumo di un successo, però, fa miracoli. Per questo, il tempo che separa dalle urne potrebbe costringere Forza Italia e Lega a un’operazione di ricucitura gradita agli elettori. Lo «schema ligure» vede un Carroccio che guida e i berlusconiani in posizione subalterna: un rapporto asimmetrico che probabilmente faticherà a funzionare sul piano nazionale. Anche perché al Sud, a cominciare da Catanzaro, il centrodestra vince senza i leghisti. E fa crescere la sensazione che dalla crisi del sistema politico si esca in quella direzione; che il blocco sociale di riferimento di Berlusconi e Salvini chieda unità e sia pronto a premiarla. Il loro compito è trovare una leadership convincente e condivisa, che per ora manca.

A sinistra, invece, un leader c’è. Ma appare sgualcito in maniera vistosa. Matteo Renzi è scomparso durante la campagna per le Comunali, sostenendo che il voto era solo locale: forse anche perché sentiva aria di sconfitta. Potrà dire che l’accordo con le altre sinistre non basta; e che la strada per tornare a Palazzo Chigi, il suo vero obiettivo, passa per altre alleanze. Eppure, si ritrova con un partito non pacificato: nonostante la scissione e la vittoria alle primarie; e con il suo interlocutore Berlusconi risucchiato a destra. Le prime proiezioni parlano di roccaforti come Genova e La Spezia conquistate dal centrodestra, con L’Aquila in bilico. E proiettano un alone cupo su una segreteria forte all’interno dell’apparato ma incapace di calamitare elettori esterni alla sua cerchia stretta: un difetto che i ballottaggi esaltano negativamente.

La domanda è dove andranno i voti perduti. Può darsi che in futuro vengano almeno in parte drenati dal movimento nascente dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia: magari per rilanciare un accordo col Pd. Ma a oggi, la prospettiva appare altamente improbabile. La sinistra non renziana tende a sconfinare in un’ostilità irriducibile verso il segretario dem. E quando chiede di ridiscutere le candidature alla guida del governo in un’ottica di coalizione, avanza una richiesta irricevibile. Renzi si sente blindato dal quasi plebiscito alle primarie, e non vuole concedere nulla agli avversari: pur senza escludere la possibilità di perdere altri pezzi. La prospettiva di un logoramento progressivo è bilanciata dalla volontà di andare alle urne e fare eleggere un «suo» gruppo parlamentare, compatto e pronto a seguirlo. Il problema è fino a quando. A novembre ci sono elezioni regionali in Sicilia che danno i Cinque Stelle in ascesa. E il «no» del presidente del Senato, Piero Grasso, a candidarsi per il Pd, è uno smacco che aggrava le incognite. Il rischio è quello di una guerra nella sinistra tra la nomenklatura renziana, minoranze sempre meno convinte della sua strategia, e la formazione di Pisapia. Ma da ieri è chiaro che le Politiche non saranno un referendum tra Renzi e Grillo. Esiste un serbatoio di voti di un centrodestra finora silente, in attesa di poter far sentire di nuovo la sua voce.

CORRIERE.IT

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