Infiltrati in Asia e attacchi in Europa, i nuovi confini del Califfato “liquido”
C’è stato un Califfato «solido» che fra il 2014 e il 2015 ha pensato di creare in Medio Oriente uno Stato islamico egemone nel mondo musulmano. Il progetto è stato bloccato da una coalizione mondiale che, per quanto litigiosa, in due anni ha recuperato i due terzi dei territori governati da Abu Bakr al-Baghdadi e ridotto i suoi domini a una striscia lungo l’Eufrate e qualche pezzo di Mosul e Raqqa. Ma dal Califfato «solido» ne sta nascendo uno «liquido». Come l’acqua, va a infilarsi ed espandersi ovunque ci siano Stati nazionali deboli e regioni remote, difficili da controllare.
Tre anni fa, quando il 29 giugno 2014 dalla moschea Al-Nuri di Mosul Al-Baghdadi proclamava la rinascita del Califfato abolito nel 1924, l’Isis è stato a un passo da compiere il più grande sconvolgimento in Medio Oriente dalla Prima guerra mondiale. Tra Siria e Iraq contava su 100 mila «soldati» e le sue colonne erano a 40 chilometri da Baghdad.
La leva di massa di 200 mila miliziani sciiti in poche settimane, ordinata dall’Ayatollah Ali Al-Sistani, e i raid martellanti dall’aviazione americana, hanno salvato la capitale irachena.
Se avesse preso Baghdad il califfo si sarebbe insediato in pianta stabile in Mesopotamia, ora invece si deve trovare un nuovo rifugio. La parola d’ordine dei primi anni, «baqiyah e mutamedidah», «rimanere ed espandersi», è quasi scomparsa nel corso del 2017. Un’analisi dell’International Center for the Study of Radicalisation and Political Violence (Icsr) ha documentato il cambio. I video che esaltavano la vita nel Califfato in Siria e Iraq, come meta ideale per tutti i «veri» musulmani, erano il 53 per cento nel 2015 ma sono passati al 14 per cento quest’anno. Quelli dedicati alla guerra sono passati dal 39 all’80 per cento.
Le perdite territoriali sono adesso ammesse e giustificate, come una «fase» negativa in una storia secolare, allo stesso modo delle prime sconfitte di Maometto poi trasformate in trionfi. E vengono tracciati nuovi confini. L’ultimo numero del mensile «Rumayah» incita i jihadisti perché le sconfitte non faranno che «accendere il fuoco in tutto il mondo» e alla fine «ogni centimetro quadrato di territorio musulmano verrà riconquistato». Gli attacchi a Manchester, Londra, sugli Champs Elysées mostrano che l’Isis è ancora in grado di colpire in Europa, anche se su scala ridotta. L’assalto a Teheran del 7 giugno è frutto di un’infiltrazione pesante e gli apparati di sicurezza iraniani hanno rivelato di aver smantellato «45 cellule in 12 mesi».
Poi ci sono le conquiste territoriali. Non paragonabili a quelle in Siria e Iraq, ma significative. Fra il 2015 e il 2017 ha espanso il suo controllo, in aree di Algeria e Tunisia, in Somalia, Africa Occidentale, Afghanistan. In Libia ha perso Sirte ma è presente fra Bani Walid e l’oasi di Jufra. Le posizioni acquisite nel Sinai sono in gran parte integre. Il caso più clamoroso sono le Filippine. Nell’isola di Mindanao l’Isis ha integrato i gruppi jihadisti locali, Abu Sayyaf e Maute, con combattenti stranieri dall’Asia meridionale, ha creato un battaglione di 800 uomini, conquistato un centro di 200 mila abitanti, Marawi, che dopo un mese e mezzo controlla ancora per due terzi.
Anche dove è costretto a ritirarsi, secondo l’analisi dell’Icsr, l’Isis cerca di mettere le basi per un ritorno. Con i conflitti settari, contro cristiani, sciiti, fra tribù sunnite rivali, con la diffusione dell’ideologia «salafita jihadista», vecchia di un secolo, e il progetto di ricostruzione di un grande Stato islamico anti-occidentale. Il punto debole dello schieramento anti-jihadisti resta l’Iraq, «lontano un milione di miglia dall’essere uno Stato stabile e coeso» e dove in autunno, con l’indipendenza del Kurdistan, si potrebbe aprire una nuova fase della guerra civile.
LA STAMPA