Trump e Ovidio alla battaglia del politically correct
In un caso giudiziario così complesso da avere già una sua voce dedicata sull’enciclopedia online Wikipedia, la Corte Suprema americana ha deciso che i marchi sono privati, pur se depositati pubblicamente, e quindi protetti dal Primo emendamento alla Costituzione, sacro alla libertà di parola. Una band musicale, gli Slants, formata da artisti di origine asiatica, voleva depositare il proprio nome, ma «Slants» è termine considerato offensivo perché indica gli «occhi a mandorla» dei nemici di guerra giapponesi e vietnamiti. La band rivendica invece come bandiera di orgoglio il vecchio insulto, alla pari dei rapper afroamericani che usano «nigger», negro nel linguaggio brutale del Sud schiavista, per definire la loro fratellanza contro i bianchi, estranei o avversari.
La diatriba divide l’America: perché un nero può usare la parola «nigger» che porterebbe al licenziamento un giornalista bianco in diretta tv? La campagna pro e contro il politically correct, codice di difesa delle identità, appassiona da decenni e, ai tempi roventi della presidenza Donald Trump, infuria con acrimonia.
La squadra di football dei Redskins di Washington, a lungo oggetto di una campagna perché cambi nome (Redskins vuol dire pellirosse, e i nativi americani considerano il nomignolo, popolare nella Hollywood dei western alla John Ford, offensivo) ha preso al balzo la sentenza pro Slants, affermando che anche il suo marchio è protetto dalla libertà di parola e quindi non lo eliminerà, accanto all’immagine del guerriero con le penne sugli elmetti dei giocatori. I tifosi del baseball dei Florida State University Seminoles e degli Atlanta Braves, insieme ai sostenitori nel football dei Kansas City Chiefs, si son rallegrati, perché potranno usare ancora il «tomahawk chop», mimando allo stadio il gesto di un guerriero indigeno che colpisce con il tomahawk, ancestrale ascia da combattimento.
In corsa per la Casa Bianca, Trump ha irriso un reporter spastico, sbeffeggiandone i movimenti, descritto il fascino di «agguantare le donne per la f…a», definito la rivale Hillary Clinton «donna perfida», polemizzando con una reporter «starà perdendo sangue da…beh da qualche parte…», e se anche la Corte Suprema assegna semaforo verde a brand controversi, la stagione del politicamente corretto si direbbe finita in America oggi e nel mondo domani.
Non affrettatevi invece a considerare morta la stagione della «politica corretta». È vero che la destra Alt Right usa, per esempio con il polemista Richard Spencer, ogni offesa contro gli avversari, senza galateo moderato, ed è vero che la sinistra controbatte colpo su colpo, con il comico Colbert a definire la bocca di Trump «fondina dove Putin non conserva la pistola» ma il pene, o che la soubrette Kathy Griffin mostra in una gag la finta testa decapitata del presidente, grondante sangue. Ma la Griffin ha poi perso il posto, Colbert, totem intoccabile dei liberal, s’è visto definire «omofobo», la destra estrema è considerata una rogna dallo staff del presidente.
Basta far capolino in una Università per capire come i bastioni del politicamente corretto siano inespugnati. A Columbia University un gruppo di studenti propone che in biblioteca sulle copie della Metamorfosi di Ovidio sia posto un «trigger», bollino di allarme che allerti i lettori sulle scene di stupro immaginate dal poeta latino, in modo da evitare choc e depressione: citato in particolare l’episodio di Apollo e Dafne, e invano un professore ricorda che il dio non violenta la naiade, mutata in alloro dai divini genitori Ladone e Creusa.
Dopo la vittoria di Trump alcuni college, come Boston University, hanno creato «spazi di difesa», dove gli studenti possono raccogliersi senza che nessuno citi il presidente, o venir soccorsi da psicologi e assistenti sociali, vedi Università del Kansas. Per reazione i giovani trumpiani rivendicano i loro «safe spaces», spazi di sicurezza schermati dagli slogan della sinistra.
È dunque inutile tentar di definire con formula unica l’America tribale 2017, spaccata da cultura, politica, identità. A sinistra il «pc», politicamente corretto, insisterà nel purificare i capolavori di Mark Twain da riferimenti razzisti ed elogerà la rimozione delle statue del generale Robert Lee, stratega del Sud schiavista nella Guerra civile, dalle pubbliche piazze. A destra prevarranno i toni machisti e le donne saran fiere di una «femminilità non femminista». Dal 1776 la grande Repubblica lotta per evitare che le diverse identità si elidano o si combattano a sangue. Quando accade, con la schiavitù e la guerra di Secessione, con i pogrom, con l’antisemitismo Anni 50 che Arthur Miller narra nell’angoscioso romanzo Focus, con il maccartismo, con la guerra culturale del 1968, Vietnam e Watergate, il Paese sembra perdersi. È il Dna libertario della Costituzione, la capacità profonda di assimilare culture lontane, a salvare l’America.
Chi leggerà il romanzo dello scrittore vietnamita naturalizzato Usa Viet Thanh Nguyen Il simpatizzante, tradotto da Neri Pozza, imparerà come l’identità Made in Usa si assimili con dolorosa lentezza, ma alla fine tempri in un modello, cangiante eppure duraturo. Lo sapeva bene Clint Eastwood nella scena madre di Gran Torino, quando il protagonista reduce polacco e il paffuto barbiere italiano si insultano con affetto, scambiandosi epiteti razzisti, per insegnare al bambino asiatico la differenza tra amicizia ribalda e odio silenzioso.
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