In tre mesi 50mila sbarchi: ormai è caos in tutto il Paese

Un sistema ormai al collasso, dove gli sforzi dello Stato centrale e delle amministrazioni locali di creare una rete di accoglienza vengono travolti da numeri ormai fuori controllo, innescando rabbia e rivolte sia da parte della popolazione civile che tra gli stessi migranti.

La resa del ministero degli Interni, con la lettera all’Unione europea che preannuncia il blocco degli sbarchi, è una resa in realtà già in atto nei fatti, con l’incapacità di reggere un ritmo di ingressi salito inarrestabilmente negli ultimi tre anni fino a varcare nei primi mesi del 2017 quota cinquantamila, con un balzo del 47% in più rispetto agli stessi mesi del 2016, con 12mila arrivi nelle ultime 48 ore. Più che le statistiche, indubbiamente eloquenti, a dare il polso della crisi irreversibile del sistema di accoglienza sono le notizie che arrivano da ogni angolo d’Italia, i segnali d’allarme che raccontano di come il meritorio obiettivo di accogliere ed aiutare i profughi dai teatri di guerra sia stato travolto da decine di migliaia di arrivi di migranti in fuga da fame, dittature, ingiustizie economiche, discriminazioni etniche o sessuali, insomma dall’intero Terzo Mondo. E non solo. A Pozzallo, la Polizia ha documentato casi di radicalizzazione che hanno portato negli ultimi due anni a 25 espuslsioni, 6 nel 2015, 12 nel 2016 e già 7 quest’anno

Tre i livelli di accoglienza: i Cie, centri di identificazione e espulsione, i Centri di accoglienza (Cda e Cara), e la rete dei bandi Sprar, le microstrutture da realizzare sul territorio grazie all’intesa tra ministero, Comuni e volontariato. Una rete investita per intero e a tutti i livelli da inefficienze e proteste. Dei dieci Cie previsti ne sono aperti in realtà solo quattro (Brindisi, Caltanissetta, Roma e Torino) per l’inezia di 360 posti. Collassato a tempo è l’avamposto meridionale di Lampedusa, primo punto di sbarco per i migranti provenienti da sud, dove il fallimento dell’accoglienza è stato tra le cause principali della sconfitta elettorale del sindaco Giusi Nicolini, che dell’accoglienza aveva fatto una bandiera.

Ma al collasso è soprattutto la rete diffusa, sotto la pressione congiunta degli ospiti – sempre più insofferenti – e delle popolazioni: da Porto Empedocle, a Nuoro, a Bronte, a Palermo, a Salerno, l’accoglienza si è trasformata in un parcheggio dove i profughi sono tenuti in ozio continuo, senza nessun serio tentativo di integrazione, e inevitabilmente hanno dato vita a episodi di piccola criminalità scatenando le proteste delle popolazioni. All’interno dei centri il sovraffollamento e lo stato di abbandono provocano conflitti a ripetizione: come quello scoppiato nel Cda di Cavaglià, vicino Biella, o quello che ha devastato quasi completamente il centro di accoglienza di Cona, in provincia di Venezia, dove operatori e volontari vennero tenuti in ostaggio una intera notte. A Caggiano e a Roma i migranti bloccano il traffico per protestare contro il mancato versamento del pocket money, il sussidio in denaro.

La situazione più critica è da tempo quella di Ventimiglia, dove da anni si spingono i gruppi di migranti che puntano a entrare in territorio francese, ma che vengono respinti e si ammassano alla frontiera e che sintetizza bene la situazione del Paese, dove entrare per i profughi è estremamente facile ma uscire verso gli altri paesi Ue è praticamente impossibile; l’ovvia conseguenza è che il numero dei presenti sul territorio continui a crescere e raggiunga cifre ingestibili. Dai Cie, ai Cda, ai Cara, agli Sprar: non c’è sigla di questa burocrazia dell’accoglienza che non sia travolta dal fallimento.

CORRIERE.IT

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