Berlusconi: c’è un solo centrodestra, quello moderato e liberale. Legge elettorale: ripartire dal sistema tedesco
Presidente Berlusconi, lo sa che nel Pd la chiamano «Fanfani»? Il signor «rieccolo», come scrisse Montanelli del leader democristiano.
«Ricordo bene la battuta di Montanelli. Ma io non sono mai andato via. Comunque, “rieccomi”».
Il centro-destra ha vinto le Amministrative, ma in vista delle Politiche — in questo sistema multipolare — non si vede oggi un baricentro.
«Il baricentro lo decideranno gli elettori con il voto, finalmente. Per il momento, alle Amministrative hanno scelto noi. A dimostrazione che un centro-destra con una forte componente liberale, moderata, ancorata al Ppe, è in grado di esprimere idee e persone giuste per vincere, ma soprattutto per governare bene le città e la nazione. In questo centro-destra, Forza Italia — che si è confermata il primo partito della coalizione per voti e per numero di eletti — ha una funzione trainante. È la prova che il vento è tornato a spirare nella nostra direzione».
In realtà Genova è stata considerata il prototipo di una coalizione che proietta il centro-destra oltre Berlusconi. L’ha vissuta come una forma di ammutinamento o come un fatto fisiologico della politica?
«Io credo che gli elettori di Genova abbiano scelto, come avevo suggerito loro, un bravo sindaco, un manager prestato alla politica: Marco Bucci. Hanno dato un giudizio severo sulla sinistra, non sulle chiacchiere di Palazzo. E poi abbiamo ottenuto eccellenti risultati in molte regioni, dal Nord al Sud, grazie all’impegno dei nostri militanti e dirigenti: per tutti, vorrei citare una regione importante come la Lombardia, dove abbiamo vinto quasi ovunque, grazie anche al grande lavoro del nostro coordinatore Mariastella Gelmini. Ma tutti i nostri coordinatori regionali si sono impegnati con entusiasmo e passione».
Per marcare il suo primato nel centro-destra, ha annunciato la presentazione di un programma che starebbe scrivendo di suo pugno.
«Abbiamo preparato un bellissimo albero della libertà, rappresentazione grafica di un programma che sarà rivoluzionario: le radici sono i nostri valori cristiani e i nostri principi liberali, i rami rappresentano i diversi problemi del Paese e i frutti sono le nostre proposte per superarli e far ripartire l’Italia. Ne citerò due. La flat tax, l’imposta piatta uguale per tutti, famiglie e imprese, al livello più basso possibile con una quota esente per i primi 12.000 euro, in modo da assicurare la progressività. E poi il reddito di dignità: di fronte alle cifre drammatiche sulla povertà in Italia serve assicurare un reddito minimo, appunto dignitoso, nel quadro di una riforma complessiva del welfare. Proprio nei giorni scorsi uno dei più prestigiosi think tank italiani, l’Istituto Bruno Leoni, ha avanzato in questa materia proposte molto simili alle nostre. È un’altra conferma del fatto che siamo sulla strada giusta».
Pensa basterà per tenere uniti i due centro-destra apparsi negli ultimi tempi?
«Non mi ero accorto che ci fossero due centro-destra. Io ne conosco uno solo, quello che ho inventato 23 anni fa e con cui abbiamo vinto molte elezioni a tutti i livelli. Un centro-destra unito, plurale, vincente. Una coalizione basata sui valori dell’Occidente liberale, all’interno della quale uomini e idee della destra democratica hanno trovato spazio e ruolo. Quale sarebbe l’altro? Quello della signora Le Pen, che ha garantito la vittoria della sinistra in Francia?».
A proposito di Salvini, in campagna elettorale lei si è mostrato più comprensivo verso i guai di Renzi che conciliante con il leader della Lega: ha detto che se ci fosse un governo Salvini-Di Maio scapperebbe all’estero.
«La mia era ovviamente una battuta. Più che altro, a scappare sarebbero moltissimi elettori della Lega. Quanto a Renzi, dire che io sia stato comprensivo non è esatto. Semplicemente non uso verso gli avversari gli stessi metodi che sono stati usati verso di me, in particolare per quanto riguarda la persecuzione mediatico-giudiziaria».
Teme di non potersi ricandidare, visti i tempi della Corte di giustizia europea: se non le fosse possibile ripresentarsi, non sarebbe opportuno che — da fondatore del centro-destra — lanciasse un suo candidato?
«I delfini esistevano nelle monarchie, e non sempre riuscivano a salire sul trono. Per quanto mi riguarda, alle elezioni ci sarò comunque. Anche se la Corte di Strasburgo non desse il suo verdetto in tempo utile, sarò in campo a guidare la campagna elettorale. Certo, sarebbe una clamorosa ingiustizia per milioni di italiani che non potrebbero votare il loro leader».
Il sistema politico non ha un baricentro e nemmeno una legge elettorale. Fallito l’accordo sul proporzionale, sarebbe pronto a un’intesa su un sistema che garantisse il premio di maggioranza a una coalizione? E pensa che il Pd accetterebbe?
«Il premio di coalizione ha più senso del premio di lista, ma poiché il Pd non ne vuol sentir parlare, noi siamo fermi al sistema tedesco, sul quale tutti i maggiori partiti fino a 15 giorni fa erano d’accordo. Qualcuno deve spiegarmi cos’è cambiato e perché non si può ripartire da dove eravamo arrivati».
Ritiene che a questo punto si arriverà alla scadenza naturale della legislatura?
«Temo sia inevitabile, anche se preferirei che si votasse prima per tornare a dare finalmente la parola agli italiani».
L’Europa e i mercati ci guardano: nell’interesse del Paese sarebbe ragionevole andare al voto senza aver varato una legge di Stabilità?
«Il voto in democrazia non è una patologia, è il normale esercizio della sovranità popolare. Se la legge di Stabilità dovesse essere impostata da un governo e conclusa nel suo iter da un altro governo, non succederebbe nulla di traumatico. Però temo che ormai sia una discussione astratta».
Insiste con il proporzionale, ma lei non era l’uomo del bipolarismo?
«Il bipolarismo l’ho portato io in Italia, quando ce n’erano le condizioni. Ma oggi gli italiani hanno deciso di non essere bipolari, e quindi dobbiamo rispettare la loro volontà, e non cercare di forzarla. I sistemi elettorali servono per garantire le decisioni degli elettori, non per coartare la loro libertà, costringendoli a scelte che non vogliono fare. Sono uno strumento, non un valore in sé, e in momenti storici diversi servono sistemi diversi».
Questo momento storico lascia presagire che si andrà verso governi di larghe intese. Nella Prima Repubblica partiti con forti identità si coalizzavano per governare. E l’Italia divenne una potenza mondiale. Perché oggi si fatica a parlarne: è il Paese che non è più abituato o sono i politici che non hanno capacità di mediare?
«Anche allora ci furono coalizioni e coalizioni. Ci fu il centrismo, che realizzò il miracolo economico e trasformò un Paese devastato dalla guerra in una delle grandi potenze economiche mondiali. Ci fu il centro-sinistra, che fece cose importanti ma compromise la crescita per l’eccessiva dilatazione della spesa pubblica. Ci fu la disgraziata stagione del compromesso storico, e poi il pentapartito, che pur commettendo numerosi errori avviò una nuova modernizzazione del Paese. Le coalizioni funzionano se sono coerenti al loro interno, e comunque sono una decisione degli elettori».
Per rimanere in tema, qual è la sua opinione su Renzi: pensa che da rottamatore finirà per essere rottamato?
«Si possono attribuire a Renzi due tipi di errori: ha atteggiamenti mutevoli che anche noi abbiamo subìto. E poi non si è mostrato in grado, per quella sua cultura politica tipica della sinistra democristiana, di realizzare quella vera modernizzazione della sinistra che sarebbe molto utile all’Italia. Tuttavia non si può non riconoscere che sia dinamico e determinato».
Che effetto le ha fatto vedere Prodi tornare sulla scena?
«Mi ha incuriosito. Significa che essere stato umiliato per tre volte dai suoi non gli è bastato».
Nell’immaginario collettivo ha sostituito «i comunisti» con Grillo: ma se prende così tanti voti non sarà perché le forze della Seconda Repubblica hanno fallito?
«Verissimo: il successo dei grillini è il fallimento della politica. Io considero pericolosissimi i Cinquestelle ma ho massimo rispetto e comprensione per chi li vota. Questi elettori esprimono un disagio, una rabbia, una delusione verso la politica che non solo condivido, ma faccio mie. A quegli elettori noi abbiamo il dovere di proporre una diversa qualità dell’offerta politica, basata su persone oneste e credibili e su programmi concreti e realizzabili. Questo è l’unico modo per fermare un movimento come quello di Grillo, che se mai dovesse governare sarebbe la sciagura definitiva per il nostro Paese. Basti pensare alle politiche fiscali, basate sulla patrimoniale, su tasse altissime sulla casa e su tasse di successione al 50%».
Per quanto i dati macroeconomici segnalino un balzo del Pil, l’Italia deve fare i conti con la crisi di pezzi del sistema bancario. E i costi in parte ricadono sui cittadini.
«Sono molto preoccupato. Intanto sarei cauto a parlare di balzo del Pil, visto che cresciamo ad una velocità che è pari alla metà dei nostri partner europei: la crescita è troppo bassa per incidere sulla disoccupazione, che è un grande dramma sociale del nostro Paese. In realtà è la situazione complessiva dell’Italia che mi preoccupa molto, e che mi induce ad usare volutamente una parola forte come “rivoluzione”. Sono necessarie risposte terribilmente urgenti e concrete in ogni settore: l’economia non cresce, la disoccupazione aumenta, la perdita del benessere e quindi la povertà ci minacciano, l’immigrazione dilaga incontrollata, i cittadini non si sentono sicuri, e in più siamo tutti vittime dell’oppressione fiscale, burocratica e giudiziaria. Per uscire da questa situazione ci vuole dunque una vera e propria rivoluzione: quella grande rivoluzione liberale che è il vero obbiettivo finale del nostro agire».
Ritiene che il governo abbia fatto bene a varare il decreto per salvare gli istituti veneti?
«Bisognava intervenire prima e meglio, garantendo così un enorme risparmio ai contribuenti. Ritengo comunque sia giusto evitare una bancarotta che avrebbe effetti incalcolabili a catena, soprattutto sui piccoli risparmiatori. Non è la prima volta che il governo è costretto a intervenire per salvare delle banche dal fallimento. Mi sembra il minimo chiedere, di fronte a tanto esborso di denaro pubblico, che sia fatta chiarezza sulle responsabilità a tutti i livelli».
C’è poi l’emergenza immigrazione che…
«Su questo la situazione è assolutamente fuori controllo. Finalmente, forse, se n’è accorto anche il governo. Ma per il momento siamo solo alle intenzioni, anche se buone, mentre ondate di migranti si riversano sul nostro Paese. Un traffico indegno e insieme un dramma sociale per gli italiani. Eppure il problema non è irrisolvibile: quando eravamo al Governo, avevamo praticamente azzerato gli sbarchi. Questo grazie ai trattati che avevamo firmato con la Libia e gli altri Paesi del nord Africa».
Ma è tutto cambiato da allora, e la Libia di fatto non esiste più.
«Nel 2011, la politica irresponsabile di Sarkozy e Obama di sostegno alle cosiddette “primavere arabe” provocò l’apertura della diga. Il regime di Gheddafi venne abbattuto e la Libia piombò nel caos. Nel frattempo, in Italia, un vero e proprio colpo di Stato portò il mio governo alle dimissioni. Da allora, cominciò il disastro: oltre 700mila nuovi arrivi. Ora quella diga va chiusa, perché produce un dramma per gli italiani, e per gli stessi migranti che si illudono di venire a trovare il benessere e invece trovano solo miseria. Le soluzioni passano attraverso l’Europa. Ma non basta ridistribuire i rifugiati, bisogna stipulare con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo dei trattati per bloccare gli scafisti prima della partenza, e degli accordi per far accettare il rimpatrio dei clandestini. Oltre l’emergenza, per fermare questo fenomeno epocale occorre poi un grande piano Marshall per lo sviluppo dell’Africa, sotto la bandiera delle Nazioni Unite, con la partecipazione dell’Europa, degli Stati Uniti, della Federazione Russa, della Cina. Un piano di cui l’Italia deve farsi promotrice».
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