Pd, 100 deputati in meno se si votasse oggi. E Renzi correrebbe al Senato

ROMA — «Se tutto va bene siamo rovinati», è la cantilena più gettonata nella sala macchine del Pd, citazione della commedia con Gigi e Andrea fatta propria da chi proietta in futuri seggi i sondaggi recapitati al Nazareno. Solo che, a differenza del noto film degli anni Ottanta, in questo caso non c’è nulla da ridere.

Se il Pd riuscisse a raggiungere la quota 28%, e quindi a stare più alto dello «score» che gli viene attribuito oggi, porterebbe alla Camera al massimo 180 deputati. Più di cento in meno rispetto agli effettivi del mastodontico esercito dei 297 eletti democrat che entrarono a Montecitorio nel 2013, grazie a un premio di maggioranza che fece di quel gruppo parlamentare — allora guidato da Roberto Speranza — il secondo più robusto della storia della Repubblica. Secondo, tanto per capirci, solo a quello della Democrazia cristiana del 1948.

La morìa delle seggiole parlamentari assegnate al Pd, tolta la scomparsa post-Tangentopoli dalla cartina geografica del Palazzo della Dc, sarà un record. Da giocare all’ultimo seggio con la carestia di poltrone che colpì Forza Italia nel raffronto tra gli eletti del 2008 e quelli del 2013. La causa sarà la stessa: la perdita del premio di maggioranza che assegnava, col Porcellum, 340 parlamentari alla coalizione vincente.

Al Nazareno c’è chi vive il brivido lungo la schiena che accompagnerà i capi-corrente ai tavoli delle liste. Con cento e passa parlamentari in meno (se si scende al 25% gli eletti sarebbero circa 140, col 23% più o meno centoventi), difficile moltiplicare pani e pesci. Le deroghe per i veterani saranno ridotte all’osso, i testimonial della società civile candidati col contagocce e, per ogni faccia nuova, ce ne saranno un paio di vecchie (si fa per dire, trattandosi anche di gente con una sola legislatura) che dovranno farsi da parte.

«Io mi candiderò al Senato», è la promessa fatta ai suoi da Matteo Renzi, pronto a rinunciare ai listini bloccati della Camera e alla pluricandidatura. Ed è lo stesso invito che Beppe Fioroni vorrebbe rivolto a tutti i big. «Al Senato si gioca la partita sulle preferenze singole. Giusto che chi ha i voti si candidi lì per aiutare il partito». Sfida senza paracadute, chi vince vince, chi perde resta fuori. «A un certo punto della storia, arriva un momento in cui vale il Codice dei Samurai. Si vive e si muore, basta che sia con onore…».

Nel Pd, i sicuri di un posto alla Camera saranno i 100 capilista. Il primo eletto con le preferenze scatterà in più di metà dei collegi, un altro solo nelle regioni rosse. In caso di pluricandidatura, se la legge non cambia, l’eletto in più collegi non potrà scegliere a chi regalare il posto. Ci sarà, sentenza della Consulta alla mano, un sorteggio. La dea bendata, insomma, si siede al tavolo delle candidature, là dove il destino, una sua parte in commedia, la recitava anche in passato.

Nel 2013, segretario Bersani, Paolo Gentiloni era a un passo dall’esclusione dalle liste. Lo recuperò nella sua quota, insieme a Michele Anzaldi ed Ermete Realacci, l’allora leader della minoranza, Matteo Renzi. E oggi ne ha preso il posto a Palazzo Chigi. Non erano stati così fortunati, cinque anni prima, né Ciriaco De Mita né Sergio Mattarella, che non ottennero la deroga dal Pd. Poco male. Il primo combatte ancora con tenacia, e fa il sindaco a Nusco. Il secondo, com’è noto, è presidente della Repubblica.

CORRIERE.IT

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